Nell’Opinione di Gianfranco Vitale intitolata Per un’informazione corretta e plurale sull’autismo, pubblicata nei giorni scorsi da «Superando.it», si parla della comunicazione diffusa da alcuni sull’autismo, «spesso con la benevola complicità delle Associazioni», che non sarebbe corretta perché unilaterale e senza contraddittorio.
Nello stesso testo, poi, sembra di capire che, essendo «ciascuna Persona autistica è diversa, per caratteristiche e funzionamento, dall’altra», tutto sarebbe giustificato, compresa la comunicazione facilitata o le posizioni contrarie ai vaccini.
Quando importammo in Italia le linee guida per la medicina, negli Anni Settanta, ci si trovò di fronte alle stesse obiezioni, che conosco bene.
Vorrei ricordare che la scienza sanitaria deve partire da classificazioni dei casi per tipo di patologia, per poter cumulare un certo numero di casi sotto lo stesso ombrello, effettuare un certo trattamento a metà di questi casi e vedere i risultati messi a confronto con un trattamento alternativo (anche solo placebo). La statistica del confronto fra i due sottogruppi fornisce le indicazioni più razionali per la scelta migliore da effettuare come primo intervento (indicazioni probabilistiche e mai certezze), perché l’esperienza valutata scientificamente aiuta la scelta.
Si supera in questo modo la vecchia medicina che faceva riferimento all’esperienza di un medico, migliore degli altri perché aveva cumulato nella propria mente la memoria di più casi a suo parere analoghi e trattati in modi alternativi, con esiti diversi. Il medico più esperto dava maggiori garanzie di risultato.
Le linee guida cumulano l’esperienza di molti medici, affinano i criteri di diagnosi per cercare di omogeneizzare il gruppo di malati, dividono in sottogruppi con il metodo casuale (random) e potenziano l’esperienza con molte altre avvertenze. Ovviamente se la diagnosi è sbagliata, ad esempio confondendo il mutismo elettivo con l’autismo, cade tutto il castello.
Resta comunque la possibilità di effettuare la diagnosi ex iuvantibus, cioè di accorgersi che la prima diagnosi non era corretta, proprio perché il miglioramento è avvenuto con un intervento alternativo rispetto a quello che si era scelto razionalmente in prima istanza.
E tuttavia, se non si vogliono creare fallaci illusioni che possano compiacere i familiari, occorre fare una prova su quell’individuo del reale miglioramento ottenuto, ad esempio facendolo rispondere con la comunicazione facilitata o con la WOCE [Written Output Communication Enhancement, ovvero “scrittura per lo sviluppo della comunicazione”, N.d.R.] ad un quesito la cui risposta sia nota soltanto al facilitato e non al facilitatore.
In questo modo si può affinare sempre più la classificazione – che per l’autismo e la psichiatria in genere è molto poco precisa – e la terapia di prima istanza.
Già docente di Programmazione e Organizzazione dei Servizi Sociali e Sanitari alle Università di Modena e Reggio Emilia e di Bologna.
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