Perché tutto ciò che ruota attorno alla disabilità dev’essere ridotto a terapia?

di Simone Fanti*
«Bisogna usare tutte le proprie abilità - scrive Simone Fanti - per diventare il più possibile autonomi e iniziare a vivere da persone “normali”, lontani dal mondo della terapia, per essere considerati come gli altri. Nel bene e nel male. Solo così si potrà superare l’idea per la quale tutto ciò che ruota attorno alla disabilità dev’essere, per forza, ridotto a terapia: “arte terapia” se si dipinge o scolpisce, “ippoterapia” se si vuole fare una passeggiata a cavallo, “terapia occupazionale” se si “fa un giro per negozi”...»

Realizzazione grafica con omino bianco a fianco di un grande punto di domanda rossoPerché tutto ciò che ruota attorno alla disabilità dev’essere, per forza, ridotto a terapia? Arteterapia se si dipinge o scolpisce, ippoterapia se si vuole fare una passeggiata a cavallo, o terapia occupazionale se si “fa un giro per negozi”. Perché si portano i ragazzi “normodotati” a corsi di musica per sviluppare le loro capacità, mentre si portano quelli con esigenze speciali a fare musicoterapia? Non ci sono forse bambini e adolescenti con disabilità che sono veri artisti pieni di talento?

Qui bisogna fare un passo indietro a un piccolo evento organizzato da chi scrive il 23 e 24 novembre a Milano, la Festa-Festival delle Abilità, una manifestazione che ha riunito artisti con disabilità di talento (nella prossima edizione, organizzata con Francesco Caprini, saranno anche senza disabilità). Il sottotitolo recitava chiaro: Arte, Musica e Poesia. Ovvero le persone e le loro capacità musicali, lessicali o figurative. Una due giorni di concerti, performance teatrali e dibattiti. Ed è proprio durante uno di questi, dal titolo Fatti di-versi, che uno degli spettatori ha alzato la mano e ha chiesto: «Ma non ho capito, quindi non stiamo parlando di arteterapia, musicoterapia…?». Una domanda che mi ha scosso e mi ha fatto riflettere.
Da circa un’ora, infatti, stavamo discutendo di musica, recitazione, scultura e pittura con artisti e attori che, grazie al loro talento, vivono della loro arte.
Se ne dibatteva con lo scultore Felice Tagliaferri, col cantante rock Alex Cadili e quelli lirici Matteo Tiraboschi e Luca Casella. Si dialogava con Antonio Giuseppe Malafarina, pensiero e penna fine, protagonista del blog InVisibili del «Corriere della Sera.it» e Vainer Broccoli, giornalista esperto di musica. Infine con Francesca Cinanni, direttrice artistica dell’Accademia romano-milanese L’Arte nel Cuore.
Tutti artisti con disabilità (tranne Cinanni, che però scopre e plasma i talenti di alcuni studenti con disabilità) che non appare nelle loro performance, nelle statue come nelle canzoni: sono opere che ascoltereste, ammirereste indipendentemente dalla condizione di chi le ha create. Non esiste l’arte disabile, esiste l’arte. Da qui la sorpresa a quella domanda.

Perché ridurre tutto a un trattamento? Mi viene quindi un sospetto che molto spesso sia più comodo immaginare e vivere nell’alveo dorato del mondo riabilitativo, dove sono gli altri a condurre il gioco, dove non ci si deve impegnare troppo, dove tutto è un ovattato gioco di “nome terapia”, piuttosto che confrontarsi con la realtà. Più facile che metterci faccia e cuore dovendo fronteggiare tante sconfitte per ogni vittoria. Una quotidianità che non obbliga a strappare con le unghie e coi denti quel pezzetto di successo a cui tutti aspiriamo.
Chiedetelo ai giovani che si affacciano al mondo del lavoro che si sono spaccati la testa sui libri per vent’anni (scuole dell’obbligo, liceo, università e i master), per poi elemosinare un posto precario. Chiedetelo a quegli uomini e donne che a metà della loro vita vengono espulsi dal ciclo produttivo e devono raggranellare il pane da portare in tavola la sera.

Essere disabili non significa essere esenti dalla sconfitte, ma obbliga a usare tutte le proprie abilità per diventare il più possibile autonomi. Come ha sempre dimostrato Franco Bomprezzi, di cui proprio oggi, 18 dicembre, cade il quinquennale della morte, che negli anni in cui lavorava per il «Resto del Carlino» si recava sui luoghi dei delitti – seguiva la cronaca nera – con i bastoni o in carrozzina.
Un esempio di come non basti fermarsi a guardare (e criticare) il mondo che ci circonda perché questo ci integri, bisogna fare qualche passo nella direzione della società, fare per primi uno sforzo per integrarsi, per costruire insieme questa società inclusiva. Iniziare a vivere da persone “normali”, lontani dal mondo della terapia, per essere considerati come gli altri. Nel bene e nel male.

Testo già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “Quell’ossessione chiamata terapia”). Viene qui ripreso – con alcuni riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.

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