Questi momenti drammatici per l’Italia, e non solo, mi suggeriscono dei legami invisibili tra il coronavirus e la disabilità. Approfitto di questi giorni in cui, sensibilmente limitati nella nostra operatività, possiamo leggere un articolo con minor fretta del solito. A dire il vero, dovremmo essere sempre capaci – e non solo quando siamo sotto pressione – di decidere come impiegare il nostro tempo, anche dedicandolo ad attività che possono apparire poco finalizzate alla produttività, ma che, in realtà, creano le basi (culturali, scientifiche ecc.) per aumentarla. Ma questo è un altro discorso, che si potrà riprendere a mente fredda.
La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ha fornito un nuovo paradigma: la disabilità non è (solo) la condizione in sé, ma il prodotto della relazione che si instaura tra una persona con specifica condizione e l’ambiente fisico e culturale che la circonda. Questo ci fa capire che, al di là dell’handicap oggettivo, quello “freddo” e certificato dal verbale d’invalidità, sono l’ambiente e la sua accessibilità a renderci più o meno partecipi della vita sociale ed economica della comunità di riferimento.
Il coronavirus sta obbligando l’Italia a rallentare, quasi a fermarsi. Versiamo tutti in uno stato di “temporanea disabilità” e dobbiamo all’improvviso ridefinire le nostre priorità, cambiare abitudini, vincere resistenze psicologiche e uscire dalla zona di comfort.
A me sembra che tutto questo, in una parola, si possa definire “resilienza”, ed è ciò per cui le persone con disabilità sono spesso chiamate in causa.
La resilienza, tuttavia – e parlo da persona con disabilità cui spesso hanno associato questo termine in modo lusinghiero – è una caratteristica insita in ciascuno di noi, e viene fuori, per così dire, solo quando serve. Per una persona con disabilità è normale essere resiliente, per una persona senza disabilità, per un Paese abituato a correre, non lo è. Ma poi la nuova normalità viene interiorizzata e ci si riscopre resilienti. Che è ben più di “resistenti”. Chi resiste, infatti, può spezzarsi, chi è resiliente no, questa è la differenza principale.
Abbiamo quindi un’Italia in “condizione di disabilità”, e questa condizione può fornire l’occasione, a ciascuno di noi, di capire più a fondo com’è la vita delle persone con disabilità, che tutti i giorni devono sopravvivere per riuscire a vivere. Sembra un gioco di parole, ma non lo è. È la verità.
Quando tornerà la normalità, la vivremo come un’euforia, perché saremo rientrati nella dimensione che amiamo e in cui stiamo bene. Rientreremo nella zona di comfort e, in fondo, anche questo è giusto. Ma sarà utile sapere che potremo anche fare tesoro di questa esperienza per avere vissuto, tutti, in una condizione di disabilità, di svantaggio, affinché poi, davanti a una persona con disabilità chiamata a una resilienza continuata, di cui spesso non si accorge nessuno, sappiamo coglierne meglio il valore.
Nelle Marche c’è un piccolo borgo che si chiama Monte Vidon Corrado, un paese di poche centinaia di anime, in provincia di Fermo, sconosciuto ai più. Il celebre artista Osvaldo Licini, che era di quelle parti e poi finì a Parigi per ragioni familiari, decise di farvi ritorno, perché lì la sua arte potesse trovare la massima espressione. Licini rinunciò a quello che una città come Parigi poteva garantirgli per seguire il richiamo della sua arte senza compromessi, e anche questa fu una forma di resilienza. Ma parliamo di Licini, uno che capì che doveva fare delle scelte per crescere. Noi il coronavirus non lo abbiamo scelto, ma tra le cose positive che può portarci c’è proprio un’occasione di crescita. Sta a ciascuno di noi non lasciarcela sfuggire.
Fondatore dell’Agenzia Jobmetoo.
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