Contro l’epidemia da Covid-19 stiamo combattendo una dura battaglia. Le drastiche misure adottate in queste settimane, per prevenire la diffusione del contagio e l’ulteriore stress a carico dei servizi e degli operatori sanitari, duramente provati dal sovraffollamento di pazienti con i sintomi più gravi, sono dure da sopportare e ci si augura abbiano presto successo, per salvare vite, evitare sofferenze, e anche per scongiurare una drammatica crisi economica.
Vanno protette in primo luogo le persone che rischiano di essere colpite nel modo più grave: anziane e con co-morbidità (con patologie cardiovascolari e respiratorie, diabete, deficit immunitari, patologie metaboliche, patologie oncologiche, obesità, patologie renali o altre patologie croniche), come ci indicano con chiarezza i dati sulle complicanze da Covid-19 e sulla mortalità pubblicati nei bollettini dell’ISS (Istituto Superiore di Sanità) e bisogna che prevalgano le esigenze di tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori su quelle della produzione di beni e servizi non essenziali. Mentre bisogna attuare subito le misure già previste di potenziamento del Servizio Sanitario Nazionale, orientate in particolare a dotare i servizi ospedalieri di Rianimazione, Pneumologia e Malattie Infettive, di personale e di attrezzature adeguate, assicurando i Dispositivi di Protezione Individuali per gli operatori sanitari, che non possono essere lasciati combattere a mani nude.
Questa è la battaglia in corso: mira essenzialmente a contrastare l’epidemia e i danni diretti del Covid-19.
Ma siamo sicuri che i danni del Covid-19 siano solo questi? Quello che sta succedendo ci dice che è saggio mantenere alta la guardia per l’epidemia e, contemporaneamente, contro le altre malattie del nostro tempo, che sappiamo avere indici di mortalità enormemente più alti: patologie cardiocircolatorie e tumorali in primis. Sapendo che in genere tutte le malattie croniche, se non prevenute o trattate precocemente, aumentano i rischi di morbosità e di mortalità evitabile. Non è facile lottare su più fronti, ma bisogna farlo.
Il 23 marzo la SIC (Società Italiana di Cardiologia) ha lanciato l’allarme: risultano dimezzati gli accessi per infarto al Pronto Soccorso, chi ha un infarto o altre emergenze è restio a rivolgersi al 118 per paura del contagio in ospedale. Il presidente di tale organizzazione, Ciro Indolfi, ha raccomandato: «Non bisogna credere che in questo momento l’infarto sia meno grave del Covid 19 e non bisogna assolutamente abbassare la guardia».
Dello stesso tono sono le raccomandazioni dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa: «Dobbiamo fare il massimo sforzo per non allentare il sistema di monitoraggio attivo di quelle patologie cardio-nefro-metaboliche che rappresentano la condizione di fragilità favorente aggravamento e decesso. Seppure ci troviamo in fase emergenziale sul Covid-19, è possibile attivare sistemi di controllo, affiancando a quelle ambulatoriali le risorse offerte da telemedicina e teleconsulto e da altre forme di E-Health».
Analoghe preoccupazioni sono state espresse nei riguardi delle persone più fragili, che rischiano l’abbandono in questa situazione. Associazioni e Sindacato hanno lanciato l’allarme, chiedendo che siano garantiti i servizi domiciliari e territoriali alle persone più vulnerabili (anziane, disabili, con sofferenza mentale, con malattie croniche), in condizioni di povertà (Alleanza contro la Povertà), e ai detenuti, assicurando la sicurezza per operatori e cittadini-utenti e le prestazioni necessarie. Un allarme che è stato ripreso con grande chiarezza da Nerina Dirindin, docente di Economia Pubblica del Welfare e di Scienza delle Finanze all’Università di Torino, e poi, per le persone senza fissa dimora, da Lorenzo Camoletto del Gruppo Abele. Mentre Rosy Bindi, in un’intervista sul «Manifesto», ha ricordato che «la pressione sugli ospedali in larga parte è legata anche al fatto che non c’è un’organizzazione per l’assistenza domiciliare, […] che non può essere la cenerentola del nostro sistema». E che paghiamo duramente anni di tagli alla sanità pubblica, eroica eppure maltrattata.
Non possiamo aspettare che l’epidemia passi per agire contro i rischi “indiretti” appena descritti, che, a questo punto, non potremo più chiamare “danni collaterali”. Governo e Regioni devono decidere di gestire l’emergenza Covid-19 in modo globale adesso, mantenendo attive quante più strutture e prestazioni possibili del Servizio Sanitario Nazionale, dalla prevenzione all’assistenza domiciliare, per garantire tutti i diversi Livelli Essenziali di Assistenza, scongiurando il rischio di abbassare la guardia contro malattie e disagi che altrimenti ci presenteranno un conto salato. Naturalmente assicurando condizioni di sicurezza a operatori e cittadini-utenti e avendo ben chiaro, come la drammatica esperienza in corso ci sta insegnando, che non è più rinviabile un piano per il potenziamento delle reti di assistenza socio-sanitaria territoriale, con requisiti e standard vincolanti come quelli per gli ospedali, investimenti e assunzioni di personale, e con medici di medicina generale più inseriti nel Servizio Sanitario Nazionale.
Dobbiamo contrastare tutti i rischi del Covid-19, diretti e indiretti, per ricostruire la Sanità Pubblica, e davvero universale, di cui abbiamo bisogno e diritto e, come scrive l’economista Mariana Mazzucato, imparare da questa crisi per cambiare un modello di sviluppo economico e sociale che ha fallito.
Aggiornamento del 5 maggio: a questo link si può disporre dei dati aggiornati di volta in volta (fonte: Organizzazione Mondiale della Sanità), sul numero delle persone nel mondo (e nei vari Paesi) contagiate e decedute a causa del coronavirus.
Stefano Cecconi è responsabile per il Settore Sanità della CGIL nazionale e direttore de «La Rivista delle Politiche Sociali»; Rossana Dettori è segretaria confederale della CGIL Nazionale. Il presente testo è già apparso in «SOS Sanità.org» e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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