Un’immagine figlia di troppi pregiudizi

di Carlo Giacobini*
La disabilità come "castigo", come "disgrazia", come ineluttabile fonte di dipendenza dagli altri, e di sofferenza di cui è responsabile il caso o il non avere rispettato alcune regole: è ciò che emerge da un recente manifesto pubblicitario dell'ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici) - Fondazione per la Sicurezza Stradale, pur nell'ambito di una campagna dalle intenzioni lodevoli. Ed è un'immagine sempre più inaccettabile, che rischia di giustificare anche la segregazione, eufemisticamente descritta nel manifesto come "passare molto tempo in casa"

Il manifesto della campagna dell'ANIA - Fondazione per la Sicurezza StradaleQualcuno ha visto la pubblicità diffusa qualche mese fa dall’ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici) – Fondazione per la Sicurezza Stradale e in particolare il manifesto che qui a fianco presentiamo?
È un’iniziativa che rammenta come ogni anno gli incidenti stradali siano la causa di 20.000 nuove gravi invalidità. Un’intenzione lodevole. È però il modo che lascia perplessi.
Tre scritte numerate affiancano l’inconfondibile schienale di una carrozzina a spinta: 1. Entrare in bagno accompagnati. 2. Passare molto tempo a casa. 3. Muoversi solo in carrozzina. Segue la raccomandazione: «Rispetta le regole della strada. Eviterai regole più dure a te e agli altri».

L’intento – l’ho già detto – lo apprezzo. È però l’immagine della disabilità che trovo tragicamente foriera di distorsioni e pregiudizi. O forse è solo figlia di questi ultimi. La disabilità come “castigo”, come “disgrazia”, come ineluttabile fonte di dipendenza dagli altri, di sofferenza di cui è responsabile il caso, o il non avere rispettato alcune regole.
Subdolamente transita e ci permea il concetto che della disabilità non è mai responsabile il contesto; il contesto la subisce, la sopporta, la compatisce. Ne ha pietà.
Un incidente stradale può provocare una lesione spinale, ma questa non è la disabilità: questa è una lesione, un danno, una menomazione. La disabilità è altro da questo. Infatti, quella menomazione assume un significato e – soprattutto – delle ricadute diverse a seconda di quelle che sono le politiche e i servizi sanitari prima (ad esempio se esiste una rete efficace per affrontare tempestivamente il trauma) e poi le politiche e i servizi sociali.
Quali politiche vengono realizzate e adeguatamente finanziate perché venga garantita la maggior autonomia personale possibile? O la migliore inclusione nel posto di lavoro? Oppure l’efficace abilitazione ? O ancora, gli ausili adeguati? Ma come… Non basta una lesione spinale alla quinta cervicale? Non bastano le piaghe da decubito? Non basta la vescica neurologica? Si devono subire anche delle “regole” vessatorie? Le “regole più dure a te e agli altri” non sono cagionate dall’incidente stradale, da una condizione genetica, da una patologia progressiva o da un errore medico, ma dalla carenza dei servizi, dall’attenuazione o dalla compressione dei diritti umani in nome della pietà, del fatalismo, del pregiudizio.

In questa logica diventa comprensibile come tragica fatalità pure la segregazione (eufemisticamente descritta come “passare molto tempo in casa”).
Se rimani chiuso in casa, non è perchè la collettività non ha previsto in alcun modo di operare per la tua inclusione, ma solo perchè, fatalmente, tu – “poverino”! – sei un “disgraziato”. Sei stato “toccato dalla sorte”.
C’è qualcosa che non va in questa immagine, qualcosa di pregiudizievole, di immobilistico e immutabile, di comodo. E ancora più infido perchè terribilmente strisciante, troppo facilmente e conformisticamente condivisibile.

*Direttore editoriale di Superando.it.

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