«È tutta farina del tuo sacco?». «Sì prof, l’ho fatto da solo»…
Il sospetto, il dubbio, la convinzione che quell’esercizio svolto in modo pressoché perfetto sia frutto del lavoro degli altri, sia farina del sacco altrui, di un genitore, di un fratello maggiore, di Google, è un pensiero ricorrente di molti colleghi alle prese con la didattica a distanza. Un’osservazione e, quindi, una valutazione pienamente legittima, suffragata spesso da evidenti discrepanze tra le competenze dell’alunno pre-Covid e la qualità degli elaborati e dei compiti consegnati ora dallo stesso alunno in modalità virtuale.
Alessio aveva difficoltà a distinguere il predicato verbale da quello nominale e ora nell’esercizio sul predicativo del soggetto non ne sbaglia una; Marzia non azzeccava neanche un minimo comune denominatore e adesso svolge espressioni con frazioni, potenze, parentesi tonde, quadre e fratte; Lorenzo all’improvviso consegna in una manciata di giorni disegni di arte simili ai paesaggi di Monet…
Due sono le soluzioni all’enigma: o son diventati tutti novelli Leopardi, redivivi Hawking, seguaci michelangioleschi, oppure qualcosa non va, qualcosa non torna. Ed è ovvio, quasi scontato, che il merito di questi progressi improvvisi sia tutto da attribuire ai “sempre benedetti siano” motori di ricerca, allo “studente Google”, a “mister Web”, a studenti.it.
Cosa fare dunque? Arrenderci al mare magnum della fantasmagorica conoscenza in rete, a portata di click? Soccombere alla politica lassista del 6 politico? Continuare imperterriti ad assegnare esercizi? E se invece provassimo a rivedere le nostre consegne? Se, per una volta, riuscissimo a mettere in discussione il portato assolutista della lezione frontale, che ci trasciniamo appresso anche dietro a uno schermo?
«Non è farina del tuo sacco» altro non è che l’assioma della “scuola-supermarket” in cui io, docente-fornaio, dispenso farina dal mio forno strabordante della conoscenza per poi setacciarla, raccoglierla e valutarla nel tuo piccolo sacco. E quando questa farina la vedo troppo lievitata rispetto alle mie aspettative, ti considero – e giustamente – ladro di farina altrui.
Qual è l’utilità di assegnare nella didattica a distanza un esercizio di grammatica, un’espressione algebrica, una tavola di tecnica per poi valutarne l’esecuzione, il prodotto finale? Probabilmente – dovremmo concordare – nessuna al di fuori della constatazione della ricchezza di dati di Internet o della buona volontà e capacità di un familiare.
“Nostra Signora DF” (“Didattica Frontale”) non funziona nella DAD (Didattica a Distanza), che detta in termini matematici potrebbe essere scritta più o meno così: DF ≠ DAD.
La didattica a distanza deve portare a un diverso modo di insegnare, che ci piaccia o meno, con tutte le sue potenzialità e debolezze. Che senso ha parlare per un’ora intera o più, per spiegare noi, con le nostre parole, con la nostra farina, un argomento, una parte di programma che deve inesorabilmente andare avanti, come il sole che sorge ogni giorno e non smette mai di tramontare?
Poche parole noi, tante parole loro. Ricreiamo nelle videolezioni un confronto, una discussione, un contributo dei ragazzi, la loro farina, chiediamo loro di intervenire, di commentare, di dire la loro a voce, in diretta, sulla bacheca virtuale o in chat, senza la smania di dover mettere un voto seduta stante.
Per noi docenti tempi brevi di spiegazione, col supporto di tutti i media largamente disponibili sul web. E per gli esercizi e le interrogazioni? Piccoli gruppi di alunni, a turno, in video chiamata, per non creare affollamenti virtuali che producono soltanto confusione o noia.
Non c’è una ricetta perfetta, intendiamoci. Le difficoltà ci sono, e tante; la didattica a distanza non potrà mai sostituire o essere efficace quanto la didattica in presenza. Proviamo però almeno a cambiare gli ingredienti, a cambiare ricetta: non chiediamoci più di chi è la farina nel sacco, domandiamoci piuttosto qual è la farina che stiamo mettendo!
Insegnante di lettere, specializzato e attivo (per scelta) su posto di sostegno.
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