Perché abbiamo deciso di inventarci un nuovo spazio teatrale

di Antonio Viganò*
«Meglio incontri con spettatori in numero ridotto - scrive Antonio Viganò, direttore artistico della Compagnia Teatro La Ribalta di Bolzano, costituita da uomini e donne con e senza disabilità -, che lasciare il vuoto della mancanza dei corpi, meglio la “qualità” di un incontro reale a salvaguardia del teatro, che non la “quantità” dei link , del “like” e dei “mi piace”. Per questo abbiamo deciso di inventarci uno spazio teatrale che, proteggendo noi e gli spettatori, ci permetta di continuare a fare il nostro mestiere di attori e danzatori»
"Peep show" della Compagnia Teatro La Ribalta
Il “peep show”, ovvero la nuova proposta di teatro voluta dalla Compagnia Teatro La Ribalta

Dobbiamo adattarci, dobbiamo sopravvivere, dobbiamo tenere in vita corpi e relazioni, dobbiamo restare creativi, salvaguardare la socialità di un incontro culturale, inventarci ancora una volta. Meglio incontri con spettatori in numero ridotto, che lasciare il vuoto della mancanza dei corpi, meglio la qualità di un incontro reale a salvaguardia del teatro, che non la quantità dei link , del “like” e dei “mi piace”.
In questo momento è meglio il “poco ma buono”, sapendo che poi tutto passerà, che questa pandemia finirà e allora, se saremo riusciti a tenere in vita una piccola fiamma, a non farla spegnere, potremo riaccendere di nuovo il fuoco. Non ci saremo persi o trasformati in qualcos’altro. Così crediamo che sarà più facile per tutti riprendere e riappropriarsi del piacere di stare insieme, vicini, non più ad un metro o davanti allo schermo, ma in tanti, tutti insieme come ieri. Perché il teatro è questa semplice necessità, che durerà nel tempo, di incontrarsi per immaginarsi e riconoscerci, per raccontarsi e sorprendersi. Perché non si può pensare al teatro e alla danza senza la presenza reale e la vicinanza dei corpi, senza la puzza di sudore, il respiro affaticato, senza il fatto che quello che succede lì, in quel momento, sarà unico e irripetibile. Non è riproponibile sempre ed eternamente uguale, come in un video o al cinema. Perché oggi, proprio in questa solitudine obbligata, umanità limitata, in questa distanza tra corpi, riscopriamo la bellezza e la necessità di quell’arte così antica: è come un fossile, se siamo in grado di accenderlo, di dargli fuoco, è capace di scaldarci come nessun altro combustibile. Ma il teatro, soprattutto in questo momento, deve ritrovare se stesso, la propria peculiarità, luogo di incontro reale tra persone vive, il più possibile rito laico e collettivo, un “ospedale per le anime”, dove le ferite sono necessità indispensabili perché l’arte si manifesti.
Rivendicare la propria “diversità”, la propria unicità è oggi più che mai necessario.

La proposta quotidiana e assillante di video, la bulimia di immagini di teatro su schermi, tablet, iPod e PC non ci appassiona. Ci sembra, anche nelle buone intenzioni, un’operazione di marketing, un modo per riempire un silenzio costretto, un’assenza necessaria, un modo per esorcizzare la paura di perdersi, di non esistere più.
Ma oggi il teatro, dentro la tragicità e la sofferenza, dentro le paure e le angosce di morte che attraversano le nostre vite, dentro la peste e la pandemia, dovrebbe avere così tanto materiale umano, emozionale, così tante ferite da guardare, scoprire e indagare, che dovrebbero spingerlo a produrre una quantità inimmaginabile di voci, testi, drammaturgie, pensieri, spiazzamenti, sguardi, atmosfere, riflessioni, per darci nuove possibili letture a questa tragica realtà.
Il teatro dovrebbe essere, per sua natura, il narratore critico di questa nostra contemporaneità. Dovrebbe aiutarci a rialzarsi, a guardare oltre le apparenze, a sforzarci di immaginare nuovi mondi e liberarci dell’angoscia del solo presente. Oppure, anche lui travolto, stare in silenzio, osservare muto quello che accade intorno. Invece, paradossalmente, si limita a riproporsi per quello che era un tempo, riproponendo quello che ha fatto nel passato, piuttosto che domandarsi cosa fare nel presente o nel prossimo futuro. La stessa parola “contagio” ha un senso profondo per il teatro: gli artisti “infettano” il teatro, immettono la malattia e la ferita per guarirlo. Come si fa con i vaccini, si introduce il virus per stimolare il sistema immunitario.

Queste riflessioni ci hanno portato a una decisione: non investiremo in video, riprese o streaming, ma investiamo tutto quello che abbiamo e anche quello che dobbiamo trovare, per costruirci un vero e proprio peep show teatrale.
Forse non si tratta di una trovata originale, ma ci rimette al lavoro tutti, attori, operatori, tecnici, registi e amministratori. E non è poco in questi tempi, soprattutto per una compagnia come la nostra, che ha dieci attori in pianta stabile più diversi altri dipendenti con diverse mansioni: tenere in piedi un collettivo di attori che sono l’incarnazione vivente di un repertorio.
Uno spazio scenico costituito da una piattaforma circolare, circondata da sedici cabine individuali che ospiteranno altrettanti spettatori. Ognuno dentro una piccola cabina, singola, per assistere ad uno spettacolo attraverso una finestra vetrata che guarda la piattaforma centrale. Uno spazio scenico che è anche una situazione drammaturgica, reale, concreta, dove sviluppare varie possibilità.
Inventarci uno spazio teatrale che, proteggendo noi e gli spettatori, ci permetta di continuare a fare il nostro mestiere di attori e danzatori. Ci permette di continuare a disegnare costumi, scene e luci, di incontrare dal vivo degli spettatori, di tenere aperta una relazione con il nostro pubblico. In poche parole di essere “lo spettacolo dal vivo”. Un’installazione “artistica” che può essere utilizzata in diversi spazi: sopra un palcoscenico, in un museo oppure in una piazza.

Il peep show è il luogo per eccellenza dello sguardo voyeuristico, il luogo dove si guarda, nascosti, “dentro il buco della serratura”. Questa condizione può essere molto fertile per costruirci un evento artistico. È una quarta parete teatrale in dimensione ridotta, una quarta parete per ogni spettatore.
Chi è all’interno, nella piattaforma circolare che è il palcoscenico del peep show, si esibisce per quel pubblico che non vede, che non vuole essere visto. Nonostante questa separazione, quello spazio crea un rapporto intimo tra spettatore e attore, una vicinanza che sembra un confessionale. Non a caso viene usato spesso come luogo di gioco “seduttivo e sensuale”, esaltandone la dimensione intima e privata.
Nato nel 1437, ai tempi era una macchina insolita chiamata anche “scatola per vedere”. Si guarda dentro in quella scatola, cercandoci cose abitualmente invisibili. Mondi onirici, immagini nostalgiche. Al suo inizio il peep show era uno spettacolo per divertirsi, che attirava il pubblico curioso di cose rare e mai viste. Solo nel 1920, a New York, il peep show diventa “sensuale”, un luogo clandestino. Noi gli daremo un’altra possibilità. L’esibizionismo, l’essere esposti ad uno sguardo nascosto, essere la vetrina del proprio corpo e dei propri sentimenti, l’intimità di un rapporto con l’altro in uno spazio ristretto e con una vicinanza imbarazzante produrrà anche un’esperienza sensoriale sia per lo spettatore che per l’attore.

La creazione di teatro/danza dentro al peep show è uno spettacolo liberamente ispirato alla fiaba di Cenerentola: per noi sarà un ritorno, dopo lo spettacolo H+G con la regia di Alessandro Serra, dopo Bianca & Neve della scorsa stagione teatrale, ai temi archetipici della fiaba.
In questo spazio, due sorelle presentano il loro spettacolo, il loro show, in competizione, per essere guardate, viste, scoperte. Forse tra quel pubblico c’è il loro “principe azzurro”, che può appagare il desiderio di “riscatto” di Cenerentola e di “avanzamento sociale” per le due sorelle. C’è molto “apparire” nella fiaba di Cenerentola, c’è molto “desiderio”, c’è molto “farsi male per farsi belle”. Cenerentola, padrona della sua ritrovata bellezza, padrona della propria corporeità, della sua faticosa e sofferta trasformazione, si concederà e la sua  bellezza non sarà più esclusiva del Principe, ma potrà essere ammirata da chi è disposto, a pagamento, ad ascoltare la sua storia.
Inoltre Cenerentola in quello spazio avrà molto da fare: dovrà continuamente pulire, sanificare e disinfettare, ogni volta che inizia una replica, le sedici singole cabine che dovranno accogliere lo spettatore, così come lo spazio circolare dove si dovrà esibire. Il resto della storia la potrete ascoltare e vedere dal vivo, speriamo,  per questa estate 2020.

Un’ultima riflessione e preghiera: questa pandemia, nel mondo dello spettacolo dal vivo, farà strage di gruppi teatrali indipendenti, che vivono “di mercato” e non di sovvenzioni, di personale artistico e tecnico, precario da sempre, che sono stati il tessuto sociale e culturale dei territori e dell’Italia. Una ricchezza inestimabile di pensieri, forme, spettacoli, sperimentazioni realizzate o fallite, vivacità culturale, differenze. Si salveranno le grandi Istituzioni pubbliche, forse, ma se intorno a loro ci sarà solo il vuoto, è in pericolo il nostro concetto di democrazia e pluralismo e questo dovrebbe preoccupare tutti, non solo gli addetti al lavoro.
Questa tragedia, se ci può insegnare qualcosa, fuori dalla retorica del “niente sarà come prima” sperando che non voglia dire “peggio di prima”, ci faccia capire che il nostro sistema di tutela del lavoro degli artisti e dei lavoratori dello spettacolo, deve dotarsi di nuovi strumenti. Si tratta di rivedere tutto il sistema per tutelare un patrimonio che ha fatto grande questo Paese e disegnare un futuro.

Direttore artistico della Compagnia Teatro La Ribalta-Kunst der Vielfalt (Accademia Arte della Diversità) di Bolzano.

Il Teatro La Ribalta-Kunst der Vielfalt (Accademia Arte della Diversità) di Bolzano
Già spesso presente sulle nostre pagine, anche con spettacoli come Superabile, il pluripremiato Teatro La Ribalta-Kunst der Vielfalt (Accademia Arte della Diversità) di Bolzano è una compagnia teatrale professionista costituita da uomini e donne con e senza disabilità.
I suoi attori non dissimulano in alcun modo la loro condizione, piuttosto vi fondano la ricerca di un’identità artistica. In scena, dunque, si vede sia la disabilità, sia un teatro dove la preparazione e la tecnica non costituiscono un involucro, né un sostegno esterno, ma sono tutt’uno con l’espressione, organicamente legati alla condizione del rappresentare.
Le capacità del tutto “speciali” degli attori e dei danzatori dell’Accademia non intervengono a “mettere in forma” la comunicazione, ma costituiscono la natura stessa della comunicazione, sostanziandone possibilità e verità. In altre parole, non c’è contenuto e contenitore (un’esistenza che abitualmente chiameremmo “svantaggiata” portata fuori di sé dallo strumento efficace di un corpo addestrato), perché l’organicità della presenza è tale che fonde corpo e mente, intenzione e azione, risorse tecniche e contenuti personali.
«Questi attori e queste attrici – è stato ribadito in diverse occasioni dalla Compagnia – non chiedono indulgenza e ci invitano a tenere la commozione a distanza; non rivendicano, nel loro agire sulla scena, alcuna azione terapeutica, perché la terapia è costretta a fermarsi sulla soglia di un mistero che appartiene all’inesplicabilità dell’arte».

Per ulteriori informazioni e approfondimenti: info@teatrolaribalta.it (Martina Zambelli).

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