Il “Dopo di Noi”, la Convenzione ONU e la voce delle persone con disabilità

di Simona Lancioni*
«Quando si tratta di impostare le politiche e i servizi per le persone con disabilità - scrive Simona Lancioni - non è sempre facile distinguere immediatamente cosa sia giusto e cosa non lo è, ma, per capirlo, possiamo utilizzare due strumenti: controllare se ciò che viene proposto/realizzato è in linea con le disposizioni contenute nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, e interpellare direttamente le persone con disabilità. Le attuali disposizioni previste per il cosiddetto “Dopo di Noi” supererebbero queste due verifiche?»
Genitori insieme a figlio con disabilità in carrozzina
Due genitori insieme al figlio con disabilità

Com’è noto, la Legge 112/16  contiene le disposizioni che disciplinano il cosiddetto “Dopo di Noi”, ossia un insieme di misure in materia di assistenza rivolte a persone con disabilità grave nel momento in cui i familiari non possono più continuare ad assisterle perché impossibilitati o deceduti. Si tratta di una norma fortemente voluta dai familiari, soprattutto dai genitori, di persone con disabilità, che spesso vivono con angoscia e disperazione l’idea che in loro assenza, ed in mancanza di soluzioni più consone, la persona di cui si curano finisca in un istituto.
Quale sia il tipo di messaggio veicolato dalla norma in questione si evince già dal titolo, che è Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare. Lo Stato è chiamato ad intervenire nel momento in cui la famiglia è assente. Sottotesto: finché c’è una famiglia, è a questa che compete in prima battuta l’assistenza della persona con disabilità.
Tuttavia, se analizzato alla luce della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (ratificata dall’Italia con la Legge 18/09), questo tipo di impostazione suscita diverse perplessità. Vediamole.

In primo luogo, la Convenzione attribuisce agli Stati firmatari, e non alle famiglie, il compito di garantire i diritti umani e le libertà fondamentali delle persone con disabilità. Pertanto, posto che le famiglie delle persone con disabilità debbano avere e abbiano un ruolo anche importantissimo nella realizzazione di questo obiettivo della Convenzione, sotto il profilo considerato la disciplina del “Dopo di Noi” non sembra conforme al dettato convenzionale.
Un altro aspetto fondamentale riguarda la disposizione, contenuta nell’articolo 19 della Convenzione, che prescrive agli Stati di assicurare che «le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione». Di fatto, però, la mancanza o l’insufficienza dei servizi pubblici di assistenza impedisce alle persone con disabilità di scegliere se vivere in famiglia o meno, e, specularmente, alla famiglia e ai familiari di decidere quanto tempo e lavoro investire nel lavoro di cura.
Nella sostanza la Legge sul “Dopo di Noi” perpetua una modalità di “rapporti familiari forzati”.
Infine, sotto un profilo concettuale, suona quanto meno bizzarro che la vita delle persone con disabilità, e solo la loro, venga scandita in relazione a un “prima” e a un “dopo” la presenza dei loro familiari, come a voler disconoscere con norme ordinarie il diritto ad essere considerate nella propria individualità riconosciuto dalla Convenzione ONU.

Per quale motivo i genitori hanno spinto perché venisse approvata una norma con questo tipo di impostazione, e non una che mantenesse in capo allo Stato le competenze e gli obblighi che la Convenzione ONU ad esso attribuisce? Difficile a dirsi. Da un punto di vista culturale, sicuramente ha giocato un ruolo la circostanza che qui in Italia i compiti di cura (di bambini/e, anziani/e e persone con disabilità) sono sempre stati attribuiti alle famiglie, e molti e molte hanno difficoltà a pensare ad un’organizzazione dell’assistenza completamente diversa.
Sotto il profilo economico, far ricadere le mansioni di cura sulle famiglie consente di contenere la spesa pubblica. Ragionando in termini politici, qualcuno/a potrebbe aver fatto delle valutazioni prudenti, considerando che, se le richieste rivolte allo Stato fossero state troppo onerose, non avrebbe ottenuto neanche il poco (davvero poco) che la norma sul “Dopo di Noi” contiene. Ma è molto probabile che in tutto questo possano avere avuto un peso significativo anche elementi non proprio razionali.

Poche altre penne sono riuscite a rendere con uguale precisione, lucidità ed empatia le dinamiche familiari descritte, come ha fatto Clara Sereni (1946-2018), compianta “ultimista” (come lei stessa amava definirsi), scrittrice, giornalista, e madre di Matteo, un uomo con disabilità psichica.
Scriveva Sereni nel 2009: «A me sembra che i genitori (tutti, e quelli di figli problematici di più) siano schiavi di una sorta di elastico, quello che ti fa periodicamente desiderare, persino violentemente, di riprenderti la tua vita, di tagliare finalmente quel cordone ombelicale che inesorabilmente ti lega a un figlio o una figlia, e insieme ti fa pensare che nessun altro sia sufficientemente affidabile da consegnargli una persona che non sa badare a se stessa, che non è in grado di difendersi dal male, che deve essere insomma tutelata perché incapace. Non mi sogno di dire che l’elastico, in tutti e due i suoi aspetti, non abbia ragioni: il mondo non è generoso con i deboli e i fragili, che vanno dunque difesi, e la libertà è, o dovrebbe essere, un diritto di tutti, ma non certo a oggi pienamente e tranquillamente garantito. Un diritto di tutti: questo è il punto. Anche di chi ha più difficoltà a fruirne e ad amministrarlo. Fra i diritti di libertà non c’è solo quello a vivere una vita che si emancipi dai propri figli. C’è anche il diritto, di tutti e di ciascuno, a “liberarsi” dei propri genitori e della propria famiglia, per poter sperimentare (con tutti i supporti e i sostegni e le tutele necessari, certo) il massimo di autonomia possibile. È difficile, come in ogni altro campo, comporre un equilibrio tra diritti. Ed è impensabile farlo senza un adeguato supporto anche al nucleo famigliare, che deve essere aiutato a crescere e ad affrontare la separazione. Senza che quel supporto (i “tecnici”) sia titolare di un diritto forte, e in qualche modo definitivo, di decisione» (Amore caro. A filo doppio con persone fragili, a cura di Clara Sereni, Milano, Cairo, 2009, pp. 26-27. Nostri i grassetti nella citazione).
Una delle questioni che affiora tra le righe è che, in realtà, lavorare sin da subito per costruire la separazione e l’autonomia dal e del figlio/a con disabilità suscita in molti genitori un cortocircuito emotivo. Infatti, perché ci sia una vera alternativa all’assistenza prestata dalla famiglia non basta che ci siano servizi diversi – che vanno comunque progettati e costruiti -, è necessario, infatti, essere disponibili a credere che anche altre persone, oltre ai genitori, siano in grado di supportare il figlio o la figlia con disabilità in modo adeguato. In altre parole, è necessario fidarsi e affidarsi ad altre persone.

Ma quanto sono disponibili i genitori di figli/e disabili a dare fiducia ad altre persone? Certo, non si può generalizzare, ma talvolta, nell’osservare i loro atteggiamenti, viene in mente Thor con il suo martello.
Thor, dio del tuono e della tempesta, è una delle principali divinità che popolano la mitologia norrena (scandinava). Una parte della sua notorietà deriva dal fatto che ha ispirato l’omonimo personaggio dei fumetti della Marvel Comics, divenendo in seguito uno dei protagonisti dei film del Marvel Cinematic Universe.
L’arma di Thor è un martello dai poteri magici (il Mjöllnir). Pare che una delle caratteristiche del martello sia quella di non poter essere sollevato e brandito da chiunque, ma solo da chi ne è “degno”, e solo Thor e pochi altri possiedono questa caratteristica.
Ecco, a volte i genitori di figli/e con disabilità si guardano intorno con aria smarrita alla ricerca di qualcuno all’altezza del compito, riflettono su quanto fanno e sarebbero disponibili a fare per i propri figli/e, e concludono che, alla fine, nessuno sia veramente “degno” di sostituirli. Dovrebbe essere ovvia la considerazione che la fiducia non vada concessa a buon mercato al primo o alla prima che passa, soprattutto nel caso di persone con disabilità intellettive (nei casi di disabilità fisica e/o sensoriale le persone dovrebbero essere in grado di decidere per sé). E dovrebbe essere altrettanto ovvio che la fiducia vada elargita gradualmente, affiancando gli operatori e le operatrici in un percorso di crescita e responsabilizzazione. Meno scontato è comprendere che il compito delle figure preposte ad affiancare una persona con disabilità nella realizzazione del suo progetto di vita non è quello di eguagliare i genitori, bensì quello di fornire alla persona in questione tutto il supporto necessario affinché essa possa esprimere e realizzare tutta l’autodeterminazione di cui è capace.
In concreto, costruire e concedere fiducia è meno facoltativo di quanto potrebbe apparire ad uno sguardo frettoloso, non foss’altro perché solitamente i figli e le figlie sopravvivono ai propri genitori.

Infine, c’è un ulteriore elemento che potrebbe aver influito sulla disciplina del “Dopo di Noi”.
Tra i concetti più comunemente associati agli istituti e alle strutture residenziali per persone con disabilità vi sono quelli di segregazione, discriminazione, violazione dei diritti umani, lager. AS tal proposito la storia ci ha consegnato pagine molto tristi legate a quei luoghi e, giustamente, l’istinto è quello di stare sulla difensiva.
Di segno opposto sembrano invece le associazioni concettuali evocate dalle famiglie delle persone con disabilità. In relazione ad esse vengono in mente accostamenti quali amore, solidarietà, dedizione, attivismo, disponibilità ad affrontare sacrifici (caratteristica questa che non sarebbe necessariamente positiva, ma che frequentemente è indicata come tale). L’inclinazione ad attribuire connotazioni positive alla famiglia influisce sulla disponibilità a vedere che in molti casi le famiglie sono invece un luogo di conflitti, violenze, abusi e maltrattamenti. Insomma, non esattamente il posto più sicuro per chi, come una persona con disabilità, ha solitamente meno possibilità di difesa.
Oltre a questo, va osservato che la propensione ad organizzare il lavoro di cura più in finzione di chi lo eroga che in funzione delle necessità di chi ne fruisce – propensione così fortemente e opportunamente contestata agli istituti – si riscontra con una certa frequenza anche all’interno delle famiglie, sebbene questi casi non suscitino altrettanta disapprovazione. Tutto questo ci fa capire quanto sia fondamentale creare un’alternativa concreta all’assistenza prestata dalla famiglia.

Quando si tratta di impostare le politiche e i servizi per le persone con disabilità, non è sempre facile distinguere immediatamente cosa sia giusto e cosa non lo è, ma, per capirlo, possiamo utilizzare due strumenti: controllare se ciò che viene proposto/realizzato è in linea con le disposizioni contenute nella Convenzione ONU, e interpellare le persone con disabilità (non i loro parenti, proprio le persone con disabilità). Le disposizioni sul “Dopo di Noi” supererebbero queste due verifiche? Della Convenzione ONU abbiamo già detto, quanto al parere delle persone con disabilità, di solito loro non rivendicano il “Dopo di Noi”, generalmente, quando riescono ad esprimersi e ad essere ascoltate (non sempre ne hanno la possibilità), chiedono indipendenza, spesso indipendenza anche dalla famiglia.

Responsabile di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito le presenti riflessioni sono già apparse e vengono qui riprese – con minimi riadattamenti al diverso contenitore – per gentile concessione.

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