Quando si parla di “viaggi della speranza”, la mente corre subito a quanti si imbarcano in viaggi più o meno lunghi e più o meno costosi, alla ricerca di terapie – quasi mai sicure e molto più frequentemente millantate – per curare patologie inguaribili o in fase terminale.
Ci sono invece dei “viaggi della speranza” molto più leggeri, molto più fatui, ma che comunque, per chi ha dei sogni, sono pure importanti. Sono quei viaggi alla ricerca del proprio idolo, della propria squadra di calcio, con il desiderio di vedere allenarsi il proprio campione o meglio ancora di incontrarlo, di farci due chiacchiere e di ottenere la foto o il bramato autografo.
Con un po’ di curiosità, dunque, e anche noi con qualche speranza, abbiamo partecipato a uno di questi viaggi.
La meta, distante oltre 250 chilometri dalla nostra base, è un centro sportivo dove vive e si allena un’importante squadra di calcio di Serie A. Il viaggio nasce per fare incontrare a un nostro amico gravemente ammalato la sua squadra del cuore.
Già per avvicinarci burocraticamente a quel centro sportivo dobbiamo inviare tanti di quegli incartamenti, da rendere quasi più facile l’accesso al Pentagono: una copia dei documenti di tutti, una dei numeri di targa dei mezzi, oltre al divieto dell’uso di macchine fotografiche o di portare palloni propri…
Esaurita comunque la parte burocratica, ci si prepara a partire. Un gruppo di volontari procura un’ambulanza per il nostro amico, gli altri seguiranno col pulmino.
Dopo un viaggio non certo dei più tranquilli – a causa di un autista un po’ troppo “rallystico” -, si arriva in tarda mattinata al “mega-centro-sportivo-della-super-squadra” e tutti veniamo riuniti in una saletta, per ascoltare la hostess su ciò che non si può fare… praticamente è concesso solo respirare… piano!
Usciamo e ci sistemiamo a bordo campo, infreddoliti, con il nostro amico che sgrana gli occhi alla ricerca dei suoi idoli. I giocatori corrono avanti e indietro, ci passano vicino a pochi centimetri, noi siamo a bordo campo, vedono il nostro amico in barella, ma nessuno ci degna di uno sguardo, di un “ciao”, di un sorriso. Abbiamo quasi l’impressione di non esistere.
Finito l’allenamento, i calciatori da 3.000 euro al minuto si ritirano per la doccia, ormai è mezzogiorno e un po’ di fame, visto che siamo in giro dalle 6, si fa sentire.
Torniamo nella saletta e aspettiamo per l’incontro con i giocatori, le foto e forse gli autografi di rito. Li vediamo invece rientrare dagli spogliatoi, andare alla mensa e accomodarsi a mangiare… E noi?… Aspettiamo.
Con loro comodo, verso le 14.30, finiscono il loro pranzo, poi, probabilmente sorteggiati, alcuni di loro entrano nella saletta a salutarci: “ciao”, sorriso “plasticato”, foto e arrivederci. Tra una foto e l’altra, non più di dieci secondi… Ci regalano due palloni firmati dai giocatori e “arrivederci”!
Si riparte. Alle 16.30 ci fermiamo in autogrill a mangiare qualcosa, perché oltre ai giocatori, l’unico che dal mattino ha mangiato qualcosa è stato proprio il nostro amico barellato. Beato lui, ha la PEG!!! [gastrostomia endoscopica percutanea, N.d.R.]. Un “viaggio della speranza”… vana, finito con molto amaro in bocca.
A questo punto ci sarebbero molte domande da fare a questi signori – vale la pena ribadirlo – da 3.000 euro al minuto:
1) Pensano che staranno sempre bene?
2) Perché le squadre, visto che pagano profumatamente questi signori, non li obbligano per un giorno alla settimana a stare in compagnia di chi sta peggio di loro, per donare un sorriso a chi pende dal loro… prestigio?
3) Perché si trattano quei “disgraziati” che vanno a trovare queste squadre come degli emarginati, anziché farli per un giorno sentire partecipi?
Ma come al solito, domande come queste sono destinate a restare senza risposta, perché loro quasi certamente non leggono testate come Superando.it!
*Vicepresidente della UILDM di Venezia (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare).
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