Il coronavirus, l’affetto e la cura

di Marco Geddes*
«Ma è proprio necessaria - scrive Marco Geddes - la ricerca di corporeità con le persone anziane e con disabilità che vivono nelle strutture residenziali? Non basterà un’adeguata informazione, una visione a distanza, la voce trasmessa dal cellulare? No, non basta! E se a livello nazionale questa problematica ha portato a recenti indicazioni da parte del Ministero della Salute, è ora indispensabile che le Regioni le mettano in atto al più presto, tramite le Aziende Sanitarie e i Servizi Sociali dei Comuni, nell’àmbito delle strutture da loro gestite»

Mano di un assistente domiciliare che stringe quella della persona assistitaPer fronteggiare la diffusione del contagio da coronavirus, in particolare in ambienti in cui la fragilità delle persone ospitate le rende più a rischio di sviluppare forme gravi di malattia e maggiormente esposte all’infezione (dovendo essere aiutate nella quotidianità e anche nella cura), si è ricorsi agli strumenti che abbiamo avuto a disposizione: il distanziamento fisico, la riduzione dei contatti sociali.

Nella scorsa primavera, per l’urgenza di fare fronte a questa emergenza, non si è prestata la necessaria attenzione alle conseguenze dell’impoverimento delle relazioni socioaffettive nella popolazione fragile, quali anziani nelle RSA [Residenze Sanitarie Assistenziali, N.d.R.], e delle persone con disturbi mentali e con disabilità psicofisiche; il “contraccolpo” di tali carenze è stato considerato un inevitabile “male minore”.
Criteri analoghi si sono applicati generalmente per i pazienti ricoverati negli ospedali, anche nei reparti di Terapia Intensiva, e negli Hospice; in contesti, quindi, particolarmente delicati, dove lo spazio che dobbiamo assicurare al congedo ha un immenso valore antropologico, soprattutto per chi resta, per superare l’evento traumatico rappresentato dalla morte della persona cara.

Conseguentemente questo virus si è dispiegato con tre volti, come la dea Ècate dotata di tre teste: è causa dell’infezione virale; di una riduzione dell’attività di prevenzione e dell’assistenza da parte del Servizio Sanitario; di un impoverimento delle relazioni socio-affettive.
Quest’ultimo “effetto collaterale” determina inevitabilmente, nella popolazione fragile, un ulteriore decadimento psico-emotivo e cognitivo. La crudeltà dell’abbandono, la nostalgia del rapporto con i propri cari, è attenuata dalla comprensione delle ragioni dell’isolamento, pur nella difficoltà di intendere quali impedimenti vi fossero alla messa in atto dei possibili provvedimenti per mitigare l’assenza di contatti affettivi.

Le persone fragili, con deficit cognitivi, non sono invece in grado di comprendere tali circostanze e vivono inevitabilmente queste settimane, questi mesi, come una crudeltà, tanto più che per loro forme surrogate di contatto, quali le videochiamate, non rappresentano abitualmente una possibile alternativa. Anche per i familiari la distanza dal proprio caro, ricoverato in ospedale od ospite di una residenza assistita, genera ansia e il timore di perdere i contatti; suscita la percezione di non essere più di sostegno per chi amiamo, la convinzione di non poter percepire adeguatamente le domande di aiuto e di affetto che emergono dalla persona cara.

È da tempo che è giunto il momento di domandarsi se per affrontare tali difficoltà si sia fatto e si stia facendo tutto quanto è necessario. Ce lo impongono le tante lettere che giungono su questi drammi; gli appelli e le testimonianze di ricoverati e di parenti degli assistiti. Lo esige quel muto urlo di dolore rappresentato dall’immagine della figlia che, per vedere la madre, attende davanti all’Ospedale Valduce di Como, in piedi sul tetto della propria macchina.
In queste ultime settimane si sono concretizzate, in alcune strutture e da parte di qualche Istituzione, iniziative volte ad affrontate queste problematiche.
La Commissione di Bioetica della Regione Toscana, ad esempio, ha approvato un articolato parere Per combattere la solitudine, per non perdere la tenerezza, che invita, fra l’altro, a:
° prendere iniziative volte a favorire il colloquio diretto fra parenti e persone ricoverate e/o ospiti nelle RSA, predisponendo spazi adeguatamente compartimentati, in cui la relazione visiva e vocale sia pienamente assicurata;
° sviluppare sistemi di collegamento visivo e uditivo dimensionalmente ed ergonomicamente appropriati a persone allettate o anziane, al fine di facilitare la continuità di rapporti con l’esterno, rendendo tale sviluppo obbligatorio e non meramente rimesso all’iniziativa dei singoli presidi ospedalieri o delle singole RSA;
° predisporre, in caso di decesso di una persona sola, adeguate procedure per conservare la salma per un periodo congruo e per attivare contestualmente le opportune ricerche al fine di rintracciare i parenti prima di procedere a sepoltura o cremazione.

I giornali hanno ora portato all’attenzione alcune pregevoli iniziative, quali le cosiddette “stanze degli abbracci”, messe in opera da un numero limitato di residenze sanitarie: la Santor di Castelfranco Veneto (Treviso), l’RSA Sacro Cuore di Brugnato (la Spezia), la Casa di Riposo Maccolini di Rimini, la Villa Santa Maria di Ivrea (Torino).
Il contatto visivo avviene in locali compartimentati; il contatto fisico si realizza attraverso una parete di plastica, in un caso predisposta grazie alla collaborazione di un’impresa che costruisce mongolfiere, consentendo così la carezza, l’abbraccio. Si da modo di esplicitare una fisica reciprocità di affetti.

Si tratta di interventi complessi all’interno di strutture esistenti? Non voglio banalizzare queste realizzazioni e non dubito che l’impegno e l’invettiva non siano certo mancati. Ma volete mettere, anche in termini di oneri economici oltre che tecnologici, cosa si affronta e si realizza, anche in questi mesi, in una struttura ospedaliera, in una sala operatoria, in un servizio di diagnostica per immagini? Forse il Lettore si domanderà se questa necessità di fisicità, questa ricerca di corporeità, sia proprio necessaria. Non sarà sufficiente un’adeguata informazione, una visione a distanza, la voce trasmessa dal cellulare? No, non è sufficiente! Esistono i corpi, il tatto, l’immediatezza di una percezione della persona viva, presente davanti a te, che puoi toccare e non solo un’immagine in differita. Anche Dante alludeva a questo intimo bisogno, perfino per le anime del Paradiso, questo «[…] disio d’i corpi […] per le mamme, per li padri e per gli altri che fuor cari […]» (Commedia, Paradiso, XIV, 63-66).

A livello nazionale questa problematica è stata infine recentemente valutata e opportune indicazioni sono contenute in un Documento del Ministero della Salute [se ne legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.], che riguarda RSA, strutture residenziali socioassistenziali e Hospice, con cui si dispone, fra l’altro, che sia data, per ogni ospite delle RSA, la facoltà di collegarsi regolarmente in modalità digitale con i propri congiunti e amici; che sia favorita la ripresa delle attività sanitarie e sociosanitarie eventualmente sospese; che vengano adottate e sviluppate e diffuse buone pratiche nella gestione dei contatti della rete sociale degli ospiti, sia in presenza che a distanza.

Le indicazioni nazionali sono ben definite. È ora indispensabile metterle in atto al più presto, da parte delle Regioni tramite le Aziende Sanitarie e i Servizi Sociali dei Comuni, nell’àmbito delle strutture da loro gestite, promuovendone l’attuazione (e verificandone la messa in atto!) nelle molteplici residenze sanitarie e strutture di ospitalità private.

Il presente contributo è già apparso in «Salute Internazionale», con il titolo “Covid-19. L’affetto e la cura” e viene qui ripreso, con minimi riadattamenti di contesto, per gentile concessione.

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