Ho letto con estremo piacere l’articolo di Donatella Morra, pubblicato da «Superando.it» con il titolo Come sta andando veramente la scuola per gli alunni e le alunne con disabilità?, condividendone sia le proposte (rilevazione diretta con i protagonisti: studenti e famiglie), sia il fatto che perdura il problema storico della mancanza di insegnanti con la specializzazione necessaria, nonché «insegnanti di sostegno con una formazione degna di questo nome».
Proprio a proposito della formazione dei docenti, recentemente, sempre in «Superando.it», Salvatore Nocera, riprendendo un articolo da me scritto, aveva evidenziato l’annosa esigenza della formazione dei docenti su cui, checché se ne dica, non solo si investono risorse esigue, ma non si agisce neppure modificando l’attuale modalità di formazione iniziale dei docenti della scuola secondaria, che è decisamente di scarso livello (se ne legga nel mio contributo In una “scuola-parcheggio” si restringe l’“area di sosta” della disabilità).
Inutile dirlo, nell’agenda politica dei governanti c’è solo la dichiarata pandemia, ma nell’àmbito della scuola vi è una conclamata urgenza di formazione pedagogica del personale docente, che ha perso di vista il tutto. Troppo spesso, oggi, la maggior parte dei colleghi curricolari vedono davanti a loro solo una classe, ovvero un insieme di alunni con cui operare, al fine di far loro acquisire le agognate competenze. Tornerò successivamente su questo punto, ora, invece, vorrei tentare un volo pindarico in area pedagogica.
Nelle scuole si sente parlare di educazione, si odono voci che evidenziano che per operare occorre essere pedagogicamente preparati ovvero «pedagogicamente parlando servirebbe…». Ebbene, al di là di tali enunciazioni, credo che occorra rilanciare il binomio scuola e pedagogia, che vanno insieme rivalorizzati nella loro essenza etimologica e nella loro prassi, ciò che richiede un’azione sinergica, al fine di poter rilanciare progetti di inclusione degni di essere chiamati tali, innanzitutto quelli rivolti ai nostri studenti con disabilità.
Personalmente osservo che da un lato molti insegnanti pensano che sia poco proficuo affrontare le esigenze prettamente educative connesse con la crescita dell’alunno (ci deve pensare la famiglia), dall’altro si tende a clinicizzare il tutto, a far scivolare le istanze del singolo verso lo psicologo, che potrà dedicare a ciò un tempo e uno spazio specifico.
Sono tristemente poco persuaso che questa sia la strada. Non nego che vi sia una certa fragilità psichica adolescenziale che si va diffondendo, ma mi chiedo: chi dovrebbe fortificare i nostri giovani? Chi dovrebbe concorrere e accompagnarli nella crescita, ponendo loro problemi reali, ovvero mettendoli alla prova?
La scuola, con le sue variegate attività didattiche, ma soprattutto educative, deve fare sperimentare in vivo, con prove di realtà, situazioni a tutti i suoi studenti, altrimenti di fronte alle prove che la vita porrà loro di fronte, come agiranno? Ci si rifugerà nel web, purché si tratti di un virtualmente corretto? Non mi dilungo sui pericoli dell’utilizzo precoce di tutta la neo-tecnologia, ma desidero qui evidenziare che le energie vitali nei nostri studenti, anche in coloro che vengono etichettati come “studenti BES (Bisogni Educativi Speciali)” (altro inquadramento clinico-nosografico che fa sì che si cada nel dover tutelare ad ogni costo, anziché sostenere i talenti che ognuno possiede), sono ben presenti, ma troppo spesso noi adulti le mortifichiamo e forse loro le investono nel digitale, ove trovano uno spazio che li accoglie, innanzitutto come consumatori del loro prezioso tempo.
La tendenza alla delega pedagogica si sta cronicizzando in seno alla nostra società: la famiglia dà mandato alla scuola – ma in realtà non si fida -, la scuola scarica agli esperti e gli esperti esterni, previa elaborazione di uno specifico progetto a carico della scuola, attuano il loro intervento mirato, ma circoscritto e le esigenze, da quelle personali a quelle connesse con il clima della classe, restano insolute. Nel frattempo, in seno al Consiglio di Classe, investito dal problema, gli adulti presenti scuotono le spalle dicendo: «Abbiamo fatto di tutto» (l’enunciare ciò fa sì che ognuno ci creda autoassolvendosi, per buona pace delle criticità che permangono).
In altre circostanze si ha fretta di dare una risposta. Spesso è utilissimo lasciar sedimentare, fare e porsi domande, anziché cercare risposte nell’immediato (ne ho scritto su queste stesse pagine, in Ma il “tutto è subito” è funzionale all’inclusione?).
La crescita di chicchessia vuole tempo ed è indispensabile testimoniare costantemente fiducia (spessissimo la vera domanda sottesa nei pre- e negli adolescenti è la seguente: «Hai fiducia in me?») e dare al tempo, – che scorre -, la possibilità di “agire”. Anziché avanzare affrettate proposte e risposte sui generis, non potrebbe essere utile saper aspettare il tempo della maturazione intrinseca della persona-studente? Nel frattempo si monitorerebbe la situazione e si incoraggerebbe l’alunno a credere in se stesso.
Costantemente mi chiedo del perché i miei colleghi adulti rifuggano alla seguente semplice domanda: «Come vogliamo accompagnare la crescita dello studente in termini educativi?». Tale imbarazzante quesito, essenziale allorquando dobbiamo accingerci a stilare un PEI (Piano Educativo Individualizzato), viene semplicemente ignorato. E invece sarebbe essenziale proselo, quel quesito, se vogliamo programmare un itinerario formativo, da percorrere in modo funzionale insieme allo studente con disabilità e alla sua famiglia.
La tendenza alla deresponsabilizzazione personale dilaga e imperversa il desiderio di delegare, tant’è che i colleghi mi dicono: «Sei tu l’esperto, pensaci tu». Se emerge un problema in seno alla classe, si tende a mandare l’alunno dallo psicologo, così come in passato allo studente si diceva, qualora non stesse bene, di andare dal medico. Sigh!
Avere a che fare con giovani adolescenti pare essere più un’esigenza tecnico-professionale che un’istanza educativa e formativa, alla stregua dell’affermare in seno al Consiglio di Classe: «Pensaci tu, Giovanni, sei tu l’esperto di disabilità!» (Sia ben chiaro che da questo momento in poi, in seno al Consiglio di Classe inizia un vero e proprio bailamme quantomeno sul chi fa cosa…).
Quindi in aula, e oggi a distanza con la DDI (Didattica Digitale Integrata), ci si prodiga per fare acquisire competenze tecnico-disciplinari e ci si dimentica di chiedersi: «Chi si deve occupare della crescita integrale della persona?». Siamo ancora alla parcellizzazione degli interventi offerti dai vari esperti? E dire che una buona azione pedagogica potrebbe potenzialmente prevenire sia il disagio sia rispondere ai Bisogni Educativi Speciali. Se tale azione educativa concertata non la si realizza nelle aule e fra le mure domestiche, dove va attuata? Si parla di emergenza e povertà educativa, ma cosa si fa per sostenere il diffondersi dell’importanza di un neopensiero educante al servizio delle nuove generazioni? Si è spostata l’azione pedagogica, che faceva il buon maestro e il team dei docenti, verso la mera sottoscrizione procedurale del patto di corresponsabilità scuola-famiglie, che altro non è che un’enunciazione di regole standardizzate da rispettare. Ciò ha per caso inciso sul modo di costruire un clima sereno e collaborativo in seno alla classe? Assolutamente no, tutt’altro. L’avere regolamentato con una serie infinita di procedure ha di fatto sia deresponsabilizzato il singolo docente, sia circoscritto la sua azione pedagogica: l’alibi è dato dall’avere già firmato un patto scritto, come se ciò corrispondesse in modo inequivocabile all’assunzione di responsabilità soggettiva. Ho già scritto, per latro, dell’importanza del dover co-costruire con la classe il patto pedagogico.
Credo sia ora di interrompere il continuare a dover sottostare a rigidi protocolli, alla cui applicazione ogni Dirigente Scolastico tiene molto; occorre uscire dal limbo rassicurante della procedura e assumersi il rischio di operare con i ragazzi in un’area di confine, in quella zona ibrida ove è possibile agire con il nostro pieno spirito umano: e qui sottolineo che talvolta il Dirigente Scolastico stabilisce regole valide per altri, ma in deroga per se stesso; la stessa cosa vale per il docente, il quale impone agli alunni regole che valgono per tutta la classe, eccezion fatta che per il docente stesso. Ciò afferisce a una cultura del potere che a tutt’oggi si respira nella quotidianità scolastica.
Anche i protocolli, così preziosi nell’area della Sanità, si devono adattare ai singoli malati-ricoverati e l’insegnante, al pari del medico, deve operare secondo scienza e coscienza. Infatti, il medico, a fronte di una precisa situazione patologica, deve seguire un protocollo terapeutico, ma, al contempo, valutare clinicamente anche l’effetto della terapia con quel ben preciso paziente.
Orbene, il docente deve saper guardare in faccia l’alunno e decidere il da farsi per valorizzare chi ha di fronte, per far fiorire ciò che è racchiuso in ogni studente, ad esempio la passione per la conoscenza. Per fare ciò è assolutamente necessario guardare, osservare e ascoltare l’alunno, a maggior ragione se ha dei Bisogni Educativi Speciali: è solo in questo modo che l’insegnante potrà assumere la duplice veste di educatore e ricercatore. Non è facile, ma grazie alla responsabilità dell’educatore e allo sguardo positivo del ricercatore, nonché all’agire sinergico, essenziale nell’area pedagogica, si potranno ottenere risultati tangibili.
Bisogna tornare a pensare con la mente e con il cuore: la passione, al pari del desiderio, è un affare di cuore e l’affascinare ed essere affascinati da un prof è pure un affare di cuore. Mi chiedo dunque: come stiamo facendo vivere la componente emotiva, durante le ore di lezione didattica, ai nostri alunni? Vi è una risonanza emotiva? Si stanno provando delle vibrazioni oppure tutto è sotto il controllo del lume della ragione, complice il distanziamento e il PC?
Nella scuola del PECUP (Profilo Educativo, Culturale e Professionale) e delle Competenze in Uscita, ciò che serve è il prodotto e la performance misurabile; i progressi contano relativamente. Ma se nego ciò, come faccio a valutare uno studente con disabilità che segue un PEI e a maggior ragione se trattasi di un PEI Differenziato?
Una collega di italiano di lungo corso, a fronte del mio argomentare («Scusa, ma l’alunna è una persona solare, sorridente, desiderosa di fare, di aiutare i suoi compagni e lo fa bene, è disponibile nel collaborare con noi adulti nelle più variegate attività didattiche. A me pare semplicemente encomiabile il suo comportamento e ciò che sa concretamente fare. Come pensi possiamo premiarla?»), mi risponde laconicamente: «Ma Giovanni, oggi sono importanti le competenze» e io di rimando: «Appunto, proprio questo volevo sostenere. La nostra alunna ha dimostrato di essere in possesso di evidenti doti, chiare competenze emotivo-relazionali e di comunicazione sociale, come possiamo riconoscergliele?». E lei: «Macché riconoscimenti, servono competenze disciplinari». Sono basito…
Come insegnante specializzato non mi sono mai limitato a fare il facilitatore degli apprendimenti (lo dovrebbe essere in primis il docente curricolare) del “mio” alunno disabile, ho espletato costantemente il ruolo di coach, di educatore e di orientatore, nonché di ricercatore. Le precarie condizioni di questi tempi e le palesi lacerazioni che stanno attraversando l’inclusione scolastica non mi fanno demordere nel dare il buon esempio che dovrebbe essere la prima qualità del nostro essere docenti e formatori.
La passione emotiva non serve più? E come pensiamo allora di poter far vivere ai nostri alunni, in veste di cittadini, l’importante tematica dell’educazione civica? Con un bel progetto interdisciplinare avente un mero carattere tecnico? E come riusciremo ad affrontare tematiche quali fake news, sexting, netiquette, ovvero la grossa tematica dell’educazione digitale, se non ricordiamo ai nostri studenti che si agisce coniugando mente e cuore?
E concludo con le parole di uno studente adolescente appartenente allo spettro dell’autismo allorquando, rivolgendomi a lui, alla presenza di un altro collega di sostegno, gli dissi: «Luca, è dura la vita?», e lui, facendo trascorrere cinque preziosi secondi, mi rispose: «Sì, è dura, prof. Giovanni», e inspirando profondamente aggiunse: «Ma è bella». È da allora che mi chiedo quotidianamente: «Come posso concorrere a rendere bella la vita dei miei alunni?». Vibrando emotivamente con loro.
Insegnante specializzato e consigliere di orientamento.
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