È da poco trascorsa la Giornata Internazionale delle Persone con Disabilità, sul tema Ricostruire meglio: verso un mondo post Covid-19 inclusivo della disabilità, accessibile e sostenibile, individuato per quest’anno dalle Nazioni Unite.
Ricostruire sì, ma a partire da cosa? Quali fondamenta hanno ceduto e mostrato i nervi scoperti del nostro sistema di cura? In che cosa non funziona il welfare che dovrebbe garantire diritti e inclusione nella società?
I limiti che potremmo individuare sono molti e vanno da problematiche organizzative, passando per limiti culturali e di sensibilizzazione, fino ad approdare a quell’immane spreco di denaro che è l’intera esternalizzazione dei servizi di cura al privato.
In generale, infatti, il welfare è stato affidato, dai suoi albori alla metà degli Anni Settanta, al privato sociale. Lo Stato non era ancora pronto e organizzato. Con il tempo, non solo lo Stato non ha creato strutture pubbliche di gestione dei servizi riabilitativi e socio-educativi, ma, anzi, il fenomeno si è allargato, andando a riguardare anche tutto l’aspetto dell’assistenza sanitaria, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti e che hanno determinato le carenze dell’emergenza sanitaria in corso.
In Italia, dunque, quasi tutto ciò che è l’assistenza socio-educativa e socio-sanitaria è affidato a privati. E sottoposto a logiche di profitto.
Questo potrebbe essere sufficiente, per comprendere perché la logica dell’“assistenzialismo puro” abbia sostituito la logica del Progetto di Vita e del Diritto: è più conveniente “assistere” qualcuno a vita che incentivarne il futuro e i progetti.
Il mio àmbito di osservazione privilegiato è, da molti anni, quello della Scuola, quella scuola italiana in cui, da mesi, qualcosa ha tremato e continua a farlo: il dibattito sulla didattica a distanza, sulle scuole aperte con un piccolo gruppo insieme al bambino con disabilità, che hanno finito, nella stragrande maggioranza dei casi, per essere una riproposizione delle vecchie “classi differenziali”, in cui l’alunno si è ritrovato a scuola col solo docente di sostegno e l’assistente all’autonomia e alla comunicazione.
Mesi fa, noi assistenti ci siamo ritrovati a osservare il dibattito sulla didattica a distanza per lo più da spettatori, dal momento che gli Enti Locali hanno pensato bene di sospendere, nel 70% delle scuole italiane, il servizio di assistenza all’autonomia e alla comunicazione, senza che a questo sia seguita, come sarebbe stato lecito, una reazione sul piano legale, per l’evidente violazione del diritto all’istruzione di questi alunni.
In quei mesi di forzata inattività mi sono lanciata nell’impresa improba di fotografare, con una ricerca, le condizioni presenti, passate e future in cui sono costretti ad operare gli assistenti all’autonomia e alla comunicazione, quell’esercito di 54.000 professionisti (stima per difetto dell’ISTAT) che consentono di applicare il mandato costituzionale del diritto all’istruzione per gli alunni e le alunne con disabilità.
Quella ricerca, recentemente pubblicata dalla rivista «Integrazione Scolastica e Sociale» della Erickson, nonostante i risultati, che dovrebbero fare inorridire l’opinione pubblica e suscitare almeno qualche interrogativo, è passata più come un tentativo di descrizione cattedratico che come opera di conoscimento e sensibilizzazione.
Si è trattato in realtà do una fotografia impietosa di come coloro che tutti i giorni lavorano per l’inclusione scolastica siano stritolati in un sistema di subcommittenze che coinvolge Enti Locali (tesi al risparmio), Cooperative (tese al guadagno), scuole (che oscillano fra problemi organizzativi e a volte di accettazione stessa di questo personale), senza garantire alcun diritto, retribuzioni al di sotto della soglia di sussistenza e livelli così eterogenei di accesso e formazione da rasentare la schizofrenia.
Prima di proseguire, devo innanzitutto ringraziare tutti coloro che hanno prestato orecchio e sensibilità alle nostre problematiche: il professor Flavio Fogarolo, che mi ha dato l’idea, il professor Dario Ianes, che ha voluto pubblicarla, il professor Massimo Nutini e il professor Raffaele Iosa, preziosissimi con le loro indicazioni, oltreché con il loro supporto e scambio intellettuale. E soprattutto, l’avvocato Salvatore Nocera, che considero il mio mentore, e per cui non avrò mai parole sufficienti che possano spiegare quale persona incredibile sia.
Ho voluto proporre questo elenco di nomi per rassicurare i miei colleghi sul fatto che in tanti sono consapevoli delle nostre difficoltà. Ci appoggiano e ci sono vicini. Ma non basta. Non può bastare. Infatti, senza un interesse politico serio, senza uno “sponsor” che si assuma la responsabilità di affermare che la situazione non è più concepibile in questi termini, succederà quello che sta già succedendo. Perché, a quanto già segnalato in quella ricerca, vanno sommati tutti i “disagi aggiuntivi” causati dal Covid 19, ovvero:
° Cooperative che non forniscono DPI adeguati (dispositivi di protezione individuale), che non pagano la malattia in tutto o in parte anche per periodi molto lunghi come la quarantena (a fronte di mesi di buste paga quasi inesistenti).
° Enti Locali che si “dimenticano” di nuovo di inserire gli operatori in didattica a distanza, qualora le classi vadano in quarantena o ci si trovi in “zone rosse” o “arancione” e che non si preoccupano di stilare protocolli per i controlli sanitari.
° Scuole che, ovviamente, non inseriscono gli operatori nei protocolli di sicurezza, che creano difficoltà nel fornire le chiavi di accesso alle piattaforme digitali.
Risultato? Colleghi che, non essendo in quarantena, vengono inviati a fare sostituzioni a ruota libera, infettandosi e infettando decine di classi, come avvenuto in una scuola romana del quartiere Monteverde. Operatori che, dopo mesi di stipendi massacrati dalla Cassa Integrazione (in ritardo) o dal Fondo d’Integrazione Salariale e dalla pausa estiva, si sono visti arrivare stipendi sotto la soglia di sopravvivenza.
In tutto ciò, questi professionisti, con nessun’altra motivazione che l’amore autentico per il proprio lavoro e per l’idea, meravigliosa e bellissima, di collaborare a costruire la basi del Progetto di Vita dei propri alunni e alunne con disabilità, continuano ad amare questo lavoro, unico e particolare.
Ma… Trent’anni fa, quando i primi colleghi entrarono nelle scuole, erano poco più di una manciata, e con mansioni assolutamente basilari. Alla fine degli Anni Novanta erano poche migliaia. Ora sono decine di migliaia e le competenze richieste sono assai più tecniche e raffinate, perché la scuola è cambiata. È diventata (o dovrebbe essere) la scuola dell’inclusione. La scuola in cui viene dato a ciascuno secondo le proprie esigenze e capacità, nell’ottica che a tutti sia concesso di essere Unico. Una scuola in cui il Progetto Educativo sia condiviso, concreto, tecnico, realizzabile.
Eppure… Dopo trent’anni noi siamo ancora fantomatico “personale esterno” (Decreto Legislativo 66/17), personale “non docente”, come giustamente sottolineato, continuamente e incessantemente, da alcuni. E l’inclusione, per noi che dovremmo garantirla ad altri, non vale?
Riflettendo su questi temi, e raccogliendo continuamente storie di colleghi che spesso si ritrovano in condizioni in cui sovente le scuole stesse non sembrano comprendere quali siano le loro mansioni (al 66% viene richiesto ancora lo svolgimento di mansioni di assistenza di base, compito degli ATA-Ausiliari Tecnici Amministrativi; solo il 44% partecipa stabilmente alla stesura del PEI-Piano Educativo Individualizzato; e solo il 43% partecipa stabilmente ai GLO-Gruppi di Lavoro Operativi per l’Inclusione), mi sono chiesta la motivazione di tutto questo.
E la sola spiegazione che determina il disservizio, la mancanza di continuità educativa, la disomogeneità nella garanzia del diritto all’inclusione, nonché la precarietà dei lavoratori e il relativo sfruttamento e demotivazione, risiede nell’esternalizzazione del servizio di assistenza all’autonomia e alla comunicazione.
Qui di seguito, dunque, elencherò, nel modo più sistematico possibile, le criticità del servizio così come gestito attualmente.
Partiamo dalle problematiche di tipo giuridico.
1) In aperta contrapposizione con il mandato costituzionale del diritto all’istruzione, il servizio, gestito dagli Enti Locali, è erogato in maniera estremamente disomogenea nei vari territori, sottoposto a vincoli di bilancio legati alla “virtuosità” amministrativa locale. Questo implica che, in alcuni territori, le assegnazioni del personale riguardino “pacchetti orari” consistenti, mentre in altri il servizio non venga quasi erogato, mettendo gli alunni e le alunne con disabilità certificata nella condizione di fruire del servizio non in base alle indicazioni operative del Gruppo di Lavoro Operativo, bensì alla capacità economica dell’Ente erogante.
2) La figura è, al momento, inquadrata in modo estremamente vario da un punto di vista economico e contributivo, andando dalla libera professione ai livelli da C1 (operaio) a D2 (educatore con titolo) del Contratto Collettivo Nazionale dei Lavoro delle Cooperative Sociali, con retribuzioni medie assolutamente non paragonabili a quelle dei dipendenti ministeriali operanti nelle scuole e, soprattutto, al di sotto della sussistenza economica minima.
3) Le spese di mantenimento del servizio sono di retribuzione diretta al lavoratore per meno del 40% (circa 7-8 euro l’ora a fronte di 20/22 di investimento economico); tali retribuzioni sono poi del tutto annullate in caso di chiusura delle scuole, vacanze, assenza dell’alunno.
4) La gestione da parte degli Enti Locali è demandata, per mezzo di bandi ad evidenza pubblica, a soggetti del Terzo Settore, nell’87% dei casi. Questo determina:
° un progressivo abbassamento dei costi (bandi di gara ad offerta economia più vantaggiosa) a fronte di un aumento sempre più consistente delle richieste del servizio;
° un’instabilità strutturale del sistema, che vede un continuo avvicendarsi di soggetti gestori;
° uno spreco di risorse impiegate sia nelle spese di indizione dei bandi e dei progetti che nelle spese di gestione delle Cooperative Sociali che si aggiudicano gli appalti;
° una situazione di precarietà lavorativa che si declina nel sistema contrattuale stesso delle Cooperative Sociali, il quale va dal fatto che i lavoratori non siano neanche soci (meno del 40%) e delineando, di fatto, una situazione “ibrida”, che trasforma le stesse Cooperative Sociali (fiscalmente inquadrate come enti non profit) in aziende vere e proprie, fino a sistemi di lavoro “a cottimo” (lavoratori non pagati se l’alunno è assente o se la scuola è chiusa).
5) Al momento, il quadro formativo e professionale degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione è estremamente frammentato, poiché si suddivide equamente fra un 46% di possessori di laurea (per lo più attinente, come Scienze dell’Educazione, Psicologia, Scienza della Formazione, Pedagogia) e un 50% di diplomati; urge dunque un’uniformità di profilo valevole per tutta Italia, come già previsto dal citato Decreto Legislativo 66/17 e dal Decreto Legislativo 96/19.
Passiamo alle problematiche di tipo tecnico.
In quanto “figura esterna”, l’assistente all’autonomia e alla comunicazione, pur lavorando “per la scuola”, non è un lavoratore della scuola. Ciò comporta, a tutti gli effetti che si tratti di un gastarbeiter, ovvero di un “lavoratore ospite”. Gastarbeiter, infatti, è colui che viene chiamato in terra straniera per compiere un lavoro, generalmente umile e faticoso, svolto il quale può tranquillamente tornarsene al proprio luogo di provenienza.
A livello di complessità sistemica, questo implica essere esclusi dalla programmazione, dalla progettazione e da una visione ampia del contesto di riferimento lavorativo.
A livello pratico, ad esempio, non è possibile accedere alla documentazione dell’alunno affidato per consultazione perché si parla di personale non scolastico; oppure, vengono vietate tutte le forme di rapporto diretto con la famiglia, minando alla base il concetto stesso di alleanza educativa; significa, infine, non poter partecipare agli incontri di programmazione, costringendo quindi l’operatore a continue improvvisazioni.
Allo stesso modo, in tempi di emergenza sanitaria, significa non essere inseriti nelle procedure dei Protocolli di Sicurezza Sanitaria Covid-19 e alle tutele concesse ai lavoratori dipendenti della scuola.
Per le motivazioni sovraespresse in merito alla mancanza di profili normativi e formativi unitari, unitamente all’estraneità formale degli assistenti, non è spesso chiaro alle stesse Istituzioni Scolastiche quali siano i ruoli e le attribuzioni e quali i confini operativi di questo personale.
Spesso, a causa della necessità di “coprire” l’intero orario scolastico dell’alunno certificato, avviene una sovrapposizione di ruoli e funzioni fra insegnante di sostegno e assistente, quando non di collaboratore scolastico e assistente (non è per niente raro, infatti, che vi sia ancora poca conoscenza della Circolare Ministeriale n. 3390 del 2001 e della differenza fra assistenza materiale di base e assistenza educativa). Questo determina un “funzionamento disfunzionale” e genera mancanza di chiarezza e coerenza all’interno del progetto educativo.
Infine, la pluralità di committenze fra Ente Locale, Cooperativa Sociale o azienda appaltatrice, Istituzioni Scolastiche e necessità delle famiglie produce una mancanza di coordinamento e una frammentazione che genera esclusivamente burocratizzazione e incapacità di progettazione, come è avvenuto ad esempio durante il lockdown, in cui non si è riusciti nel compito di coprogettare modalità di intervento e, di fatto, per il 70% dei casi gli Enti Locali hanno sospeso il servizio, privando gli alunni del diritto all’assistenza sancito dal PEI (che è stato sospeso, se non annullato, almeno nella parte relativa all’assistenza all’autonomia e alla comunicazione) e i lavoratori della propria occupazione.
A fronte di queste considerazioni, la conclusione è che nessun assistente all’autonomia e alla comunicazione può davvero pensare che questo sia il lavoro della vita. È del resto quello che è sempre avvenuto: l’assistente all’autonomia e alla comunicazione è un lavoro di passaggio per la maggior parte (42% sotto i cinque anni di anzianità di servizio).
La novità è che, alla luce di questo anno certamente orribile per tutti, stanno lasciando il campo anche coloro che l’hanno svolto per tanto tempo, che hanno resistito, resistito, resistito. Stanno abbandonando, scegliendo altri lavori, provando in massa i corsi per il sostegno (TFA-Tirocini Formativi Attivi). In alcuni casi, preferendo la disoccupazione. Parlo con i miei colleghi in tutta Italia e dovunque è lo stesso. Dopo quattordici anni, ho fatto le valigie anch’io. Metaforicamente. Con un’amarezza infinita. Col groppone in gola di chi sa cosa si sta lasciando alle spalle.
Fin qui si potrebbe obiettare che si tratta semplicemente di problemi di lavoratori, per cui, si sa, l’interesse politico in questo Paese non è che sia proprio altissimo. E invece no. Un servizio gestito male è un servizio che non garantisce qualità agli utenti. Nel nostro caso, agli alunni e alle alunne che, perdendo noi, perdono continuità, motivazione al servizio, conoscenze e competenze.
Se noi, come lavoratori, non abbiamo garantito alcun diritto, non abbiamo neanche il potere di lottare affinché i diritti dei nostri alunni siano adeguatamente garantiti. E questo, alla lunga, diventa francamente insopportabile.
E allora mi chiedo, e chiedo a chi ha il potere di farsi sentire, alle Associazioni di genitori, alla nostra classe politica, che parla tantissimo di scuola, ma ci ignora quasi del tutto: siete consapevoli di cosa si sta perdendo? Siete consapevoli che state ignorando quasi 60.000 lavoratori che hanno investito in anni di formazione e passione e mai hanno ricevuto nulla in cambio? Siete a conoscenza del patrimonio di amore per i nostri studenti e di dedizione ad un mondo migliore e più giusto che si va dissipando in questo silenzio assordante che ci circonda?
Secondo l’89% dei miei colleghi, l’unica soluzione è la statalizzazione, l’unico futuro possibile di questa professione è l’inserimento nei ruoli del Ministero dell’Istruzione. Perché è a scuola che lavoriamo. Da sempre. E allora, se non ora, quando?
È giunto il momento che qualcuno si assuma politicamente la responsabilità di 54.000 lavoratori che aspettano. E dei 254.000 alunni del cui Progetto di Vita, educativamente, si occupano.
Psicologa clinica, formatrice, assistente all’autonomia e alla comunicazione.
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