È nel pieno della sua fase conclusiva il progetto dell’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau), realizzato in collaborazione con l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) e in particolare insieme al WHO/DAR, il team Disabilità e Riabilitazione dell’OMS stessa, incentrato sull’analisi scientifica dell’impatto dell’offerta di riabilitazione su base comunitaria in un distretto dello Stato del Karnataka, in India (se ne legga nel nostro sito cliccando qui).
Nella nostra precedente intervista a Sunil Deepak – responsabile del dipartimento medico-scientifico dell’AIFO e referente per questo progetto – ci eravamo accordati che, al suo ritorno dall’India, dove alla fine dello scorso anno si era recato per partecipare alla riunione di verifica dell’andamento della fase conclusiva, ci saremmo risentiti per comprendere il senso dell’ultima fase del progetto e fare il punto sui risultati raggiunti. Sessanta operatori che lavorano a livello comunitario e trentadue persone con disabilità che lavorano insieme nel progetto di ricerca hanno condiviso un’intensa cinque giorni di dialogo e confronto.
La fase conclusiva, che è iniziata al termine di quella emancipativa – di cui si è ampiamente parlato nell’articolo precedente e che ha la caratteristica peculiare di essere condotta con il coinvolgimento diretto delle persone con disabilità del luogo – è stata avviata nell’aprile dello scorso anno e si protrarrà fino al mese di aprile di quest’anno.
In che cosa consiste quest’ultima fase?
«Vengono approfonditi alcuni temi da parte delle persone del luogo. Il progetto è consistito nell’analisi degli effetti quantitativi e qualitativi di due progetti, uno gestito da un gruppo di suore e l’altro da un’associazione locale. Questi due gruppi per la prima volta vengono direttamente coinvolti nel nostro progetto».
Non era accaduto già prima?
«No. La prima fase è stata gestita dai ricercatori dell’AIFO. La seconda da ricercatori pagati dall’AIFO che hanno fatto da tramite tra alcuni esperti a livello internazionale e un gruppo in loco, gruppo formato dagli utenti, e cioè dai destinatari dei servizi e non dai fornitori».
Ora invece è il turno dei “fornitori”?
«Sì. È con loro che vogliamo condividere i risultati».
Come state procedendo?
«Abbiamo individuato alcune persone che hanno fatto parte del progetto e le abbiamo affiancate agli operatori che lavorano nelle comunità e a un gruppo di persone con disabilità. Tutti approfondiranno alcuni temi scelti prevalentemente da loro».
Quali?
«Le problematiche che incontra in quella zona rurale dell’India ciascuno specifico gruppo di persone con disabilità. Approfondiranno anche il discorso dei gruppi di auto-mutuo aiuto, l’individuazione delle organizzazioni non governative locali costituite da persone con disabilità e la definizione del loro ruolo e la verifica dell’utilità sociale di alcuni video che sono stati girati durante le fasi precedenti del progetto».
Che valore hanno i gruppi di auto-mutuo aiuto?
«Stiamo parlando di un’area vasta più di 5.000 chilometri quadrati [la superficie della Valle d’Aosta, in termini di raffronto, è di 3.263 chilometri quadrati, N.d.R.] e comprendente foreste e altre ampie zone non abitate. Gli operatori sociali si occupano di circa trecentocinquanta, quattrocento persone con disabilità a testa. Chiaro che si tratta di un carico di lavoro impossibile, tanto più che questi operatori non hanno nemmeno formazioni specifiche, se non quelle fornite da alcuni corsi di poche settimane».
Come procedono, quindi?
«Quando scoprono l’esistenza di una nuova persona con disabilità vanno a trovarla a casa, cercano di verificare che non sia isolata e casomai la incitano ad andare a scuola, a frequentare i gruppi di mutuo aiuto o a recarsi alle visite mediche. Cercano insomma di spingere la persona a inserirsi nei gruppi perché così possono essere più facilmente seguite. Di visite domiciliari si cerca di farne il meno possibile. È più facile arrivare in un villaggio e incontrare tutti alla riunione del gruppo di appartenenza, invece che andare casa per casa. Sulla base di questo ragionamento le energie degli operatori sono impiegate parecchio nel senso di creare e mantenere un gruppo di auto-mutuo aiuto in ciascun villaggio».
Chi prende parte a questi gruppi?
«Dalle persone con disabilità e, dove queste non riescono ad arrivare, dai loro familiari. In realtà ci sono soprattutto donne, madri o sorelle. Sono loro che si prendono cura delle persone con disabilità. Per loro, però, non è facile uscire di casa settimanalmente (tale è la cadenza degli incontri), perché gli altri familiari si oppongono. Non è concepita tanta indipendenza. Loro si devono occupare della casa, fare da mangiare, eccetera».
Come si possono aiutare queste donne?
«Abbiamo trovato molto utile il fatto che a ciascuna riunione ogni componente del gruppo versi un contributo economico in una cassa comune, qualcosa che va dalle dieci alle cinquanta rupie, ovvero da meno di cinquanta centesimi di euro a un euro. Di settimana in settimana la raccolta si arricchisce e alla fine possono impiegarla come fondo di garanzia per ottenere prestiti dalle banche. Oppure per rivolgersi a noi dell’AIFO, che per stimolare la raccolta, abbiamo promesso di raddoppiarla ogni volta che si raggiungono determinate cifre. Si tratta davvero di una risorsa importante, se si pensa che la pensione offerta dal Governo equivale a circa sette, otto dollari al mese. Occorre anche tenere conto che perfino la domanda di pensione o ausilio ha un costo. Bisogna infatti compilare dei moduli, presentare delle fotografie, ottenere la firma di un ufficiale. Per queste e altre esigenze si possono utilizzare i fondi della cassa comune, che poi verranno a poco a poco restituiti, una volta ottenuta la pensione o l’ausilio richiesto».
Perché questa raccolta favorisce l’uscita di casa delle donne?
«Perché possono dire: “Devo assolutamente andare a portare i soldi, altrimenti la cassa comune ne risentirà”. Si tratta di un impegno concreto i cui benefìci arrivano a tutti. Se invece dicessero: “Devo andare perché stiamo facendo un percorso di consapevolezza”, i mariti non le lascerebbero andare. Poi, in realtà, durante la riunione si condividono le esperienze, si raccontano le storie di vita, ci si consiglia, aiuta e sostiene a vicenda. E si imparano anche cose pratiche. Ad esempio gli analfabeti imparano a firmare, in modo da poter compilare i documenti. Inoltre gli operatori informano i partecipanti sui loro diritti, su cosa possono chiedere allo Stato e al villaggio. Ci sono programmi per borse di studio, e nel bilancio dei villaggi il 3% dovrebbe essere destinato alle esigenze delle persone con disabilità. Ci sono varie opportunità, ma manca l’informazione. E inoltre, manca la forza».
In che senso?
«Mi spiego. Se il capo del villaggio sa del 3%, ma non intende rispettare la norma, la richiesta di un singolo al suo adempimento può venire elusa. Ma se un gruppo intero di persone ne chiede con forza l’applicazione, allora il capo ci penserà due volte prima di far finta di niente».
Gli operatori partecipano a tutti gli incontri?
«No. Vanno all’inizio, poi sempre di meno. Portano il gruppo a individuare un rappresentante e si rapportano soprattutto con lui. Il rappresentante viene poi chiamato a partecipare all’incontro dei vari rappresentanti, riuniti in sottodistretti. Questi gruppi sono la base per la nascita delle associazioni di persone con disabilità. Questo accade quando il gruppo si registra e diventa un’organizzazione non governativa. Più organizzazioni non governative dei sottodistretti, riunite insieme, formano quella del distretto».
Si arriva così a strutturare associazioni nazionali?
«No, perché il nostro progetto riguarda solo una zona specifica dell’India, rurale».
Esistono associazioni a livello nazionale o almeno statale [l’India è una federazione di Stati, N.d.R.]?
«Sì, ma si tratta di enti che si formano soprattutto nelle grandi città e portano avanti le esigenze delle persone che in quei luoghi vivono. Casomai, alcuni dei rappresentanti dei nostri distretti possono iscriversi a un’associazione nazionale, ma lo faranno in quanto singoli individui e non in qualità di rappresentanti delle organizzazioni non governative locali che stiamo creando.
Inoltre, vorrei aggiungere che la maggior parte delle associazioni a livello nazionale rappresentano una sola specifica categoria di disabilità, mentre le nostre organizzazioni non governative comprendono insieme tutti i tipi di disabilità».
La vostra ricerca è riuscita a creare tutto questo?
«Sì. È questo il bello di una ricerca emancipativa. Avevamo già svolto altre ricerche scientifiche teoriche, poi pubblicate in qualche rivista scientifica. Ma ci siamo resi conto che questo tipo di operazioni magari sono capaci di individuare le carenze e di sviluppare proposte alternative, ma rimangono sulla carta e non interagiscono mai direttamente con la realtà locale. Una ricerca invece condotta rendendo protagonisti gli abitanti oggetto delle ricerca stessa, ha la capacità di portare a dei cambiamenti concreti».
Qualche altro esempio?
«La fondazione di associazioni con struttura democratica dal basso è fondamentale. Ma non basta averle create. Occorre dare consapevolezza ai componenti di essa di quale tipo di strumento hanno in mano. Molti infatti non sapevano cosa fare alle riunioni delle organizzazioni non governative. Non avevano chiaro a cosa potesse servire essere rappresentati da un organo non governativo. Noi abbiamo cercato di fornire informazioni ed educazione anche in questo senso».
A quando la prossima riunione?
«Purtroppo i fondi sono ormai carenti e non sarà possibile coprire le spese di viaggio per riunire tutti i partecipanti. Abbiamo allora pensato che ci terremo in contatto in videoconferenza».