Numeri (ancora) piccoli per un impegno enorme: quello dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità. Dal mese di novembre scorso, la Federazione Disability Mangement, in sigla FEDMAN, è stata inserita nell’elenco delle professioni regolamentate tenuto dal Ministero dello Sviluppo Economico, e questo riconoscimento diventa un passaggio fondamentale per dare slancio al cambiamento di approccio dei manager delle risorse umane rispetto alle disabilità [della nascita della FEDMAN si legga già anche sulle nostre pagine, N.d.R.].
«La FEDMAN – spiega il presidente, Mauro Buzzi –associa attualmente una sessantina di disability manager, soprattutto di imprese private, e tra i suoi obiettivi ha quello di sollecitare il Legislatore a completare una normativa ancora incompleta, nonché quello di stabilire uno standard per la formazione del disability manager e delle sue caratteristiche specifiche». Ma l’impegno maggiore – come dice lo stesso Buzzi e come è stato illustrato in un recente webinar visibile sul sito della FEDMAN e promosso dalla Federazione stessa insieme al Centro di Bioetica e Scienze della Vita dell’Università Cattolica di Milano [se ne legga la presentazione sulle nostre pagine, N.d.R.] – è quello di lasciarsi definitivamente alle spalle la logica da “assunzioni protette”, nella quale la persona con disabilità (non il “disabile”, termine che rivela attenzione più per le abilità che per la persona) è spesso vista come un problema e un costo. Si deve invece evolvere verso la cosiddetta “work ability”, intesa come capacità del lavoro di adattarsi alle caratteristiche dei suoi lavoratori. Anche perché, con una forza lavoro che invecchia e che quindi va più facilmente incontro al rischio di sviluppare disabilità e anche malanni cronici, un’organizzazione flessibile e inclusiva può difendere meglio non solo la sua reputazione, ma anche la sua produttività. E ciò non sembra così distante da quanto stiamo forzatamente sperimentando in questi mesi di pandemia, con smart working, telelavoro, lavoro da casa e distanziamenti che hanno obbligato gran parte di noi e delle nostre organizzazioni a sviluppare “work ability” prima inimmaginabili. Ma invece è proprio in periodi di crisi che lavoratori e lavoratrici con disabilità diventano i soggetti più deboli e più a rischio.
«Un errore – argomenta Buzzi – perché, oltre a esporre le imprese a rischi di contenziosi, a non cogliere le risorse statali e locali destinate all’inclusione, porta a non ragionare neppure sul proprio business: accogliere le persone con disabilità in azienda significa infatti sviluppare sensibilità che poi diventano redditizie». Un Access Manager, ad esempio, figura che esiste nel Regno Unito, fa sì che prodotti e servizi siano elaborati in modo accessibile ai consumatori con disabilità. Come impone, dagli Anni Novanta, l’Americans with Disabilities Act (ADA), che insieme alla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, rappresenta un riferimento fondamentale per chi si occupa di questi temi.
Ma chi è, e cosa fa un disability manager? Come si individua all’interno delle gerarchie aziendali? Se vogliamo usare le stesse parole della citata Convenzione ONU, è colui o colei che si occupa di «accomodamenti ragionevoli», cioè di intervenire sulle possibili barriere che la persona con disabilità può incontrare e di trovare soluzioni adeguate.
Sonia Vassallo è responsabile dell’amministrazione del personale in Alstom Italia e ha l’incarico d disability manager. «Il disability manager – spiega – non dev’essere né una ennesima figura che si aggiunge nell’area delle risorse umane, né una figura satellite rispetto alle gerarchie aziendali. Deve invece saper coinvolgere il medico competente, il responsabile della sicurezza, l’organizzazione del lavoro». «L’aspettopiùimportante – prosegue –è la capacità di lavorare in sinergia con le altre funzioni aziendali. Può avere una formazione tecnica oppure giuridica, deve certamente saper comprendere gli aspetti normativi, ma deve soprattutto essere un manager capace di trovare soluzioni».
Ma in aziende di dimensioni ridotte, si può trovare questa figura? «È più semplice nelle grandi aziende – dice Vassallo -, ma anche in realtà piccole si può ricorrere a un consulente esterno e lavorare per progetti».
La giornata di Vassallo è ricca di esperienze e spunti che spiegano l’impegno del disability manager, dalla vigilanza sui bandi nazionali e locali, all’assistenza immediata per illustrare un software a un nuovo collega, alla verifica di iniziative quali quella che ha portato, a Bologna, all’assunzione di alcuni ragazzi con autismo “ad alto funzionamento”, dedicati a una particolare attività di Alstom.
Per divulgare i benefìci dell’inclusione e di una buona gestione dei lavoratori con, o a rischio, di malattie croniche, l’Unione Europea ha varato una joint action chiamata Chrodis Plus, grazie alla quale sono stati prodotti un training tool per i manager e una “cassetta degli attrezzi” (toolkit) per sensibilizzare e formare i manager e per indicare le azioni concrete da avviare in azienda. Dall’alimentazione all’ergonomia, alle iniziative per la salute mentale o per il contrasto a fumo e alcol, Chrodis Plus ha come obiettivo uno spettro più ampio di “disabilità”, perché l’ambiente di lavoro sia realmente inclusivo, per tutti.
Un disability manager si forma con corsi specialistici post laurea, che sono disponibili in diverse città italiane, presso Università e Associazioni. L’Ateneo maggiormente attivo da più tempo su questi temi e apripista della formazione in materia per indicazione degli stessi manager è la Cattolica di Milano, dove il Centro di Bioetica e Scienze della Vita da anni propone un corso di alta formazione per disability manager, affidato alla direzione scientifica di Adriano Pessina, docente di Filosofia Morale e al coordinamento scientifico di Matilde Leonardi, che dirige l’Unità Operativa di Neurologia, Salute Pubblica e Disabilità alla Fondazione IRCCS dell’Istituto Besta di Milano.
«La collaborazione del nostro Centro con l’Istituo Besta ha ormai più di una quindicina d’anni», spiega Alessio Musìo, docente di Filosofia Morale alla Cattolica di Milano e componente insieme a Leonardi, Pessina e Domenico Bodega del Comitato Scientifico della FEDMAN. Dal corso dell’Università Cattolica, inoltre, proviene la maggior parte degli associati della stessa FEDMAN.
Ma come si arriva dalla filosofia e dalla bioetica alla disabilità e all’inclusione delle persone con disabilità sul posto di lavoro? «Le barriere – risponde Musìo – sono culturali, prima che architettoniche, e la dignità per le persone con disabilità non discende dal lavoro, ma è precedente. La disabilità è un catalizzatore di questioni etiche e gli “accomodamenti ragionevoli” che vengono richiesti sul lavoro sono in primo luogo scelte etiche. Indicano risposte speciali a bisogni che sono bisogni normali, come il lavoro».
La normativa italiana sul disability manager poggia attualmente, per le imprese private, su una previsione derivata dal Jobs Act e per il settore pubblico sulle disposizioni della “Legge Madia” [Legge 124/15, N.d.R.], si tratta però di riferimenti incompleti.
L’avvocata Haydée Longo, specializzata sui temi dell’inclusione e dei diritti umani (come spiega il suo sito) precisa, infatti, i limiti delle disposizioni. Per il settore privato il riferimento rimasto ancora sulla carta è il Decreto Legislativo 151/15, che nel primo comma dell’articolo uno, alle lettere E e F, ha affidato al Ministero del Lavoro il compito di disporre con suoi Decreti «la promozione dell’istituzione di un responsabile dell’inserimento lavorativo nei luoghi di lavoro con compiti di predisposizione di progetti personalizzati per le persone con disabilità e di risoluzione dei problemi legati alle condizioni di lavoro dei lavoratori con disabilità in raccordo con l’Inail per le persone con disabilità da lavoro» e l’«individuazione di buone pratiche di inclusione lavorativa delle persone con disabilità». I Decreti richiesti, tuttavia, non sono mai stati emanati.
Per il settore pubblico, invece, il Decreto Legislativo 75/17 ha costituito la Consulta Nazionale per l’Integrazione in Ambiente di Lavoro delle Persone con Disabilità e ha proposto, per le amministrazioni con più di duecento dipendenti, la nomina di un responsabile dei processi di inserimento, «al fine di garantire un’efficace integrazione in ambiente di lavoro di persone con disabilità». Mancando però una sanzione, quest’obbligo di nomina del responsabile è rispettato in modo molto diseguale.
Il presente contributo è già apparso in «Il Sole 24 Ore», con il titolo “Specialisti della «work ability» per l’inclusione in azienda” e viene qui ripreso, con minime variazioni dovute al diverso contesto, per gentile concessione.
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