Negli ultimi tempi, il dibattito sulla disabilità gravissima è sempre più presente sui mezzi d’informazione. Qualche tempo fa anche noi ci siamo occupate dell’argomento attraverso una ricerca svolta nel Comune di Torino [“Caregiving familiare e disabilità gravissima. Una ricerca a Torino”; se ne legga nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.]. Tale studio, che ha riguardato trentotto famiglie di persone con disabilità gravissima, è stato per noi l’occasione di riflettere sulle delicate questioni connesse alla non autosufficienza. Vorremmo dunque contribuire al dibattito attraverso alcune delle riflessioni cui quel lavoro ci aveva condotto.
Riguardo alla definizione di disabilità gravissima, il timore è che si scivoli dal riconoscimento di una condizione (di necessità di assistenza più intensa, o semplicemente diversa) al tracciare una linea di demarcazione tra chi ha “realmente bisogno” e chi non ne ha.
Le conseguenze di questo modo di ragionare – in un periodo di fatiche economiche come questo – sono evidenti ai più. Alla luce delle grandi differenze tra le situazioni delle persone con disabilità, già un anno fa ci domandavamo se si fosse sicuri della necessità di una distinzione dicotomica tra disabilità grave e gravissima. Utilizzando l’ICF come strumento di classificazione [la Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, definità nel 2001 dall’Orgnizzazione Mondiale della Sanità, N.d.R.], il problema potrebbe essere almeno parzialmente superato, poiché la valutazione globale delle persone colloca le diverse condizioni all’interno di un continuum descrittivo.
I vincoli di bilancio (praticamente il punto oltre cui non si può spendere) sono una realtà sempre più evidente, ma sono anche un elemento che nell’ultimo periodo sta pericolosamente monopolizzando la scena concettuale. A volte sembra sbiadire nei discorsi la consapevolezza che i vincoli economici sono sì da considerare quando si progettano servizi, ma non sono l’unico elemento in gioco.
D’altra parte, il denaro non è l’unica cosa che bisognerebbe moltiplicare per avere un sistema d’inclusione efficace per tutti, che sia basato sul «rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale – compresa la libertà di compiere le proprie scelte – e l’indipendenza delle persone; la non discriminazione; la piena ed effettiva partecipazione e inclusione all’interno della società; la parità di opportunità; l’accessibilità» (Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità).
È necessario ad esempio moltiplicare le reti, attivare risorse e comunità locali (che non significa, sia chiaro, delegare l’assistenza e il lavoro per l’inclusione sulle famiglie e sui volontari). Sono necessarie politiche di promozione sociale che rinforzino e sostengano il capitale sociale, le reti e l’associazionismo, non “per i disabili”, ma in quanto beni collettivi.
Non solo i soldi, dunque, ma il senso della comunità, della condivisione, dell’importanza di partecipare alla costruzione di una società migliore, fanno parte delle cose che ultimamente sembrano scarse.
Molti elementi – non ultima la campagna sui “falsi invalidi” di cui tanto spesso si è scritto anche su queste pagine – hanno contribuito a far crescere l’idea che “gli altri” siano quelli con cui mi devo spartire una coperta troppo corta (e che quello che posso fare è battermi per dimostrare che spetta a me e non a loro), e non persone con cui mi posso alleare, per inventarci nuovi modi di stare “tutti al caldo”.
Contemporaneamente, in alcuni contesti professionali, sembra farsi strada un’idea di “triage” [dal termine francese che letteralmente significa “cernita”, “smistamento”, N.d.R.]: si cerca cioè di stabilire un criterio di intensità di bisogno, nell’ottica di dare prima, e poi probabilmente solo, a chi ha più (nei casi peggiori si dice “davvero”) bisogno.
Questo punto di vista presenta a nostro parere tre difetti strutturali: primo, ritorna a collocare completamente nella persona lo svantaggio (cosa che è perfetta nell’Emergency Room del pronto soccorso, un po’ meno adatta alle situazioni esistenziali). Secondo, elimina completamente la prospettiva della prevenzione del disagio e dell’isolamento sociale (più efficace e meno costosa) e terzo, propone una visione dei servizi come qualcosa da “dare”.
Forse invece, a questo punto del cammino, dopo la Convenzione ONU e dopo vent’anni di Legge 104, non si tratta più tanto di “dare” servizi, quanto di promuovere una società inclusiva attraverso i servizi. Servizi per la comunità, accessibili a tutti, disabili inclusi.
Sulla definizione di gravità si giocano dunque partite molto importanti, per il riconoscimento dei diritti delle persone con disabilità e per il passaggio culturale dal modello assistenziale a quello dei diritti. La questione della gravità rischia di diventare terreno di contrapposizioni: nel tentativo di semplificare e porre un limite netto, si rischia infatti di perdere di vista la multifattorialità delle differenze e la necessità di garantire a tutti non tanto uguaglianza, quanto pari dignità.
L’inclusione sembra passare ancora una volta dal riconoscimento: riconoscimento dell’altro – fragile o diverso che sia – come portatore di caratteristiche, potenzialità e bisogni che hanno pari dignità e diritto a pari considerazione di quelli di ciascun membro della società. Un riconoscimento della differenza che racchiude una vicinanza e una distanza. La distanza che sta nel riconoscere che l’altro vive una condizione differente dalla mia, e che quindi per comprendere questa condizione è importante il suo punto di vista. E allo stesso tempo una vicinanza, l’ascolto delle persone e dei loro portavoce, per comprendere le condizioni speciali e per parlarne in maniera competente e serena, in vista di un agire comune orientato al benessere di tutta la società.
*Ricercatrice. Docente di Pedagogia Speciale all’Università di Torino.
**Educatrice. Dottorato di ricerca in Scienze Psicologiche, Antropologiche e dell’Educazione all’Università di Torino.
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