Vi è stato un periodo della nostra vita – “nostra” perché credo non sia stata solo “mia” – nel quale molte cose difficili sembravano possibili.
Il discorso è relativo alle persone con disabilità e alle loro famiglie. Per loro, trent’anni fa, era possibile pensare un futuro, che è cosa assai diversa dal pensare al futuro.
Pensare un futuro significa progettare il “futuro del possibile”, come avevo scritto un po’ di anni fa su queste stesse pagine, restare nella realtà pur sognando ad occhi bene aperti.
Inclusione, integrazione, pari opportunità commisurate alla differenza dei bisogni, la miglior vita possibile per i più gravi e per tutte le persone con disabilità.
Ma la cosiddetta “finanza creativa”, il terrorismo, la globalizzazione sfrenata, la concentrazione delle risorse e quindi del potere in un numero sempre minore di mani, con il conseguente aumento a dismisura di quelle che restano vuote, il venir meno di ogni tensione morale, la mancanza di leader capaci di governare autorevolmente senza scivolare verso autoritarismi: ecco cosa ha spento i sogni di allora.
Le nostre parole d’ordine, “la famiglia con disabilità”, “i gravissimi”, “la resilienza”, “Nulla per Noi senza di Noi”) sono diventate il patrimonio comune che quasi tutti dicono di condividere, i giornalisti per primi. Ma come possiamo oggi difendere il vero significato di queste parole?
Ricordandoci del futuro, di quel futuro benevolo che sembrava a portata di mano, ma che sfuggiva ogni volta che cercavamo di coglierlo.
Vecchio caregiver di ABC Liguria (Associazione Bambini Cerebrolesi, abcliguria@gmail.com) e di Associazione DopoDomani.
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