Quando nasce un figlio con una «disabilità gravissima»

di Marina Cometto*
Perché, secondo Marina Cometto, non è improprio usare le parole "disabilità gravissima", per caratterizzare quelle situazioni con maggiori e specifiche necessità, che dovrebbero avere risposte adeguate. Sono quei casi - che esulano ad esempio dal concetto comune di "handicap grave" della Legge 104 - in cui «è necessario rivoluzionare completamente il contesto familiare, non esistono più orari, si vive alla giornata, il lavoro spesso diventa un'utopia per almeno un componente della famiglia - quasi sempre la madre - e in cui si "impara" a inserire sondini per l'alimentazione o cateteri, a usare aspiratori per evitare il soffocamento e a dormire tre-quattro ore per notte, perché la sopravvivenza del nostro caro dipende da noi»

Marina Cometto insieme alla figlia ClaudiaLe parole “gravissima disabilità”, spesso usate da Giorgio Genta anche su queste pagine [se ne legga ad esempio cliccando qui, N.d.R.], io le uso solo per far capire – ma purtroppo sembra che non sempre sia così – che vi sono disabilità che esulano anche dai termini comuni di «handicap grave» citati dalla Legge 104/92. Credo infatti che il superlativo  sia necessario, per rendere l’idea di una complessità che coinvolge tutta la famiglia a 360 gradi. Non a caso usiamo spesso – anche in modo provocatorio – il termine “famiglia disabile”.
Certo, sarebbe anche il mio sogno vivere in una società che considerasse tutte le persone con le loro diverse necessità, offrendo a ciascuno le giuste opportunità. Oggi, però, non è proprio così.

Secondo le norme italiane, le invalidità sono sostanzialmente suddivise tra motorie, sensorialicomunicative. Vediamo qui di seguito una serie di “variabili”.
Se una persona è paraplegica, ha un’invalidità  del 100% (il massimo, nell’intendimento comune). Se una persona è cieca, ha un’invalidità per cecità del 100%. Se una persona  è sorda e non comunica verbalmente, è riconosciuta invalida al 100%. Non viene poi presa apertamente in considerazione l'”insufficienza mentale”, ma se una persona ha problemi mentali o intellettivi per cause genetiche, metaboliche o a seguito di un trauma, viene riconosciuta invalida al 100%.
E ancora, se una persona ha l’epilessia, con crisi frequenti e/o “farmacoresistenti”, ha un’invalidità riconosciuta del 100%. Se una persona ha seri problemi di respirazione che ne compromettono in maniera importante lo stato di salute, ha riconosciuta l’invalidità al 100%. Se però questa stessa persona  è anche tracheostomizzata  e alimentata con la PEG [gastrostomia endoscopica percutanea, N.d.R.] ha sempre riconosciuta solo un’invalidità al 100%.
Se queste disabilità, dunque, danno singolarmente diritto al massimo dei benefìci previsti, tutte assommate (o anche una parte di esse) in una sola persona, a mio parere – ovviamente – non sono più tali, perché diventano disabilità al “300”, “400”, “500%”. Ecco, dunque, che cosa voglio dire quando parlo di “gravissima disabilità”. Vediamo allora alcune possibili situazioni.
Una persona paraplegica che vuole viaggiare, incontra difficoltà di barriere architettoniche e organizzative; se però una persona è tetraplegica, cieca, con epilessia e ha anche un’insufficienza intellettiva, le complicazioni sono molte altre.
Oppure, se una persona cieca vuole andare a lavorare lo può fare. Ha bisogno di un accompagnatore forse, ha bisogno di un impiego adeguato, ma lo può fare. Se invece una persona è cieca, tetraplegica, con epilessia e con un’insufficienza mentale, rimane “al palo”.
E ancora, se una persona paraplegica, cieca e sorda viene ricoverata in ospedale, è in grado di  esprimere con diverse modalità i propri bisogni o le proprie sofferenze. Una persona, invece, che assomma paraplegia, cecità, sordità e insufficienza mentale o una grave difficoltà di comunicazione, deve avere un accompagnatore 24 ore al giorno perché le strutture sanitarie non sono in grado di offrire l’assistenza necessaria.

Quando nasce un bambino con una gravissima disabilità, è tutta la famiglia a essere coinvolta, è necessario rivoluzionare completamente il contesto familiare, non esistono più orari, si vive alla giornata e il lavoro spesso diventa un’utopia per almeno un componente della famiglia – quasi sempre la madre – che per poter seguire e accompagnare il figlio nei contesti riabilitativi e sanitari (sono frequenti i ricoveri), non riesce a mantenere il posto di lavoro che ovviamente ha orari precisi e impegnativi. Si impara inoltre a inserire sondini per l’alimentazione o cateteri, a usare aspiratori per evitare il soffocamento – senza essere infermieri – si impara a dormire tre-quattro ore per notte, perché la sopravvivenza del nostro caro dipende da noi. Ci si inventa di tutto, per riuscire a far mangiare un figlio con problemi di deglutizione, al quale una crisi epilettica o un colpo di tosse durante il pasto può togliere la vita e a far fare nello stesso tempo i compiti a un altro figlio con il sorriso sulle labbra…
Un bambino o un adulto con  una disabilità  gravissima può essere assistito solo da personale preparato e formato – pagato adeguatamente – e anche questo è un elemento non certo da poco: come si può pensare, infatti, di pagare un operatore efficiente e capace e pagarlo 7 euro all’ora? Si tratta infatti di un impegno gravoso e di responsabilità e quindi è sempre la famiglia a dover essere presente.

Quindi, a mio parere, non è improprio usare le parole “disabilità gravissima”, per dare un significato di maggiori e specifiche necessità che devono avere risposte adeguate, e poco importa se la Convenzione ONU non ne parla o se la Legge 104 si ferma al termine «grave». Se si vuole veramente includere tutti, le distinzioni ci devono essere.
Recentemente è successo che i malati di SLA (sclerosi laterale amiotrofica) abbiano avanzato richieste alle Istituzioni per fare emergere queste distinzioni. Essi hanno avuto molte critiche per questo, e tuttavia solo così loro e le loro famiglie sono riusciti ad avere un riconoscimento delle loro necessità, perché altrimenti – con il 100% riconosciuto come invalidità – avrebbero continuato a “desiderare di morire”, piuttosto che vedere le proprie famiglie distrutte oltre che dalla malattia, anche dall’inadeguatezza  delle norme in vigore.
E non si dimentichi mai quanto sosteneva Don Milani, ovvero che «Non c’è nulla di più ingiusto che  fare parti eguali fra diseguali».

*Presidente Associazione “Claudia Bottigelli” per la Difesa dei Diritti Umani e l’Aiuto alle Famiglie con Figli Disabili Gravissimi (Torino).

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