Dopo l'”esordio” del 2011, ha preso il via lo scorso 30 marzo a Jesi (Ancona), la seconda edizione del ciclo di seminari promossi dal Gruppo Solidarietà, denominato Persone con disabilità. I diritti, i bisogni, le politiche, i servizi [se ne legga la presentazione nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.], con il primo incontro, dal titolo Inserimento, integrazione, inclusione, propedeutico ai due successivi che affronteranno altrettanti temi specifici: il ruolo di un servizio come il centro diurno e l’inserimento lavorativo delle persone con disabilita intellettiva.
Il tema è stato discusso con Andrea Canevaro, docente di Pedagogia dell’Università di Bologna (sede di Rimini) e Fabio Ferrucci, docente di Sociologia all’Università del Molise, a partire appunto dai termini inserimento, integrazione e inclusione, che rispecchiano un passaggio della storia umana nella disabilità.
Ci troviamo oggi di fronte a queste parole con il rischio di usarle come sinonimi una dell’altra, senza più differenziare nulla, senza che ognuna di esse detti un passaggio culturale nei confronti della realtà delle persone con disabilità. Ma perché ripartire da significati cosi apparentemente generali? Perché in tempi difficili come quelli attuali, aumenta la consapevolezza che le politiche sociali – per essere realmente politiche inclusive – devono necessariamente avere chiari i modelli di riferimento.
Il confronto si è sviluppato attorno ai punti nodali che il Gruppo Solidarietà aveva posto ai relatori: che cosa differenzia una politica inclusiva da quelle dell’inserimento e dell’integrazione; quali strumenti avere per rimanere desti di fronte alle logiche separanti; come uscire da logiche esemplificative dei servizi.
Ferrucci ha incentrato il proprio intervento sul concetto di una politica inclusiva da interpretare come una serie di politiche integrate, che riescano davvero a creare un sistema di sostegni da un lato e a dare spazio ai rapporti interpersonali dall’altro, sapendo dunque entrare nella vita degli attori che ne usufruiscono.
Quali sono dunque i pericoli da cui ripararsi? A tal proposito, Canevaro ha invitato a non cadere nel rischio di un'”ipertrofia identitaria“, cioè a non creare gruppi di persone e politiche rivolti a specifiche categorie, negando dunque le identità e creando una falsa normalità.
«L’inclusione – ha sottolineato il docente dell’Università di Bologna – è un allargamento di orizzonti per tutti, una possibilità di evoluzione umana reciproca. Parlare dunque di politiche inclusive significa parlare di Cittadinanza e di Economia, di Cittadinanza e di Istituzioni con responsabilità comuni. E il rischio di una deresponsabilizzazione delle Istituzioni nella programmazione delle politiche inclusive va di pari passo con quello dei servizi che limitano l’inclusione alla gestione privata tra i fruitori e i gestori degli stessi».
I pericoli sociali che derivano da tali proposte sono evidenti, creando “logiche da contenitore”, dove la disabilità diventa un problema da risolvere per quella categoria di persone, mentre la società ne rimane ai margini, disinteressata.
Sempre Canevaro ha messo poi in guardia da altri due pericoli, oltre a quello già citato: innanzitutto la posizione dei “sommersi e dei salvati”, cioè delle vittime e dei salvatori, invitando anche le stesse persone con disabilità alla consapevolezza della loro realtà, a un prendere parte alla vita comunitaria; e poi la precarietà diffusa di molti operatori che per questo «non creano più, rimanendo nella logica della mansione e non in quella del processo che dà risposte creative con la persona disabile».
Con quali strumenti si possono prevenire tali pericoli? Osservare e stare dentro alla complessità significa oggi accettare la sfida di unire reti informali, no-profit, politiche, servizi, programmando insieme nella prospettiva del bene comune, non in una logica riparativa, ma di empowerment [qui inteso come “crescita dell’autoconsapevolezza delle persone”, N.d.R.].
A chi si candida a gestire servizi viene dunque chiesto qualcosa in più, una sorta di «ortoprassi» – termine usato da Canevaro – ovvero un modo di fare che sia creativo, trasgressivo alla rigida regola dei trattamenti specifici, che risponda all’umanità della persona con disabilità e al suo diritto all’inclusione reale.
L’avanzare degli “specialismi” pone infatti ulteriori problemi: trattamenti speciali, associazioni legate non più solo alle patologie ma alle tecniche, uno specialismo che tende a mettere ai margini contesti e normalità. Ed è qui che si gioca l’inclusione.
Infine, cosa e come rilanciare tutto ciò, rispetto ai territori? Con regole condivise, con un’indispensabile passione per il bene comune, pensandosi come parte di una Comunità che sente la responsabilità di modellarsi, per rispondere alle esigenze di tutti e di ciascuno.