Ancora tanta strada da fare, per vivere nella comunità in modo indipendente

Per porre fine alla segregazione delle persone con disabilità e consentire loro di vivere una vita piena e indipendente nella comunità sono necessari una volontà politica, ingenti investimenti nei servizi sociali e di prossimità e un grande sostegno alle loro famiglie che, dimenticate dalle politiche pubbliche, portano un peso troppo grande sulle spalle: sono le conclusioni emerse durante la recente audizione intitolata “Verso una vita indipendente”, promossa dal CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo), organo consultivo della Commissione Europea

Persona con disabilità in un corridoio oscuro

La nuova Strategia Europea per i Diritti delle Persone con Disabilità 2021-2030 pone fortemente l’accento sull’importanza di garantire una vita indipendente agli oltre tre milioni di europei con disabilità che vivono attualmente in contesti istituzionali. Tuttavia, la transizione verso la nuova vita nella comunità non sarà possibile senza adeguati servizi di prossimità accessibili e a prezzi abbordabili, che oggi scarseggiano nell’Unione Europea. Dal canto loro le famiglie svolgono un ruolo cruciale nella deistituzionalizzazione, ma vengono spesso lasciate sole a supplire alle carenze del sostegno pubblico. Di fronte all’assenza di alternative, infatti, i familiari sono costretti a collocare i proprio cari in strutture residenziali oppure ad assumere il ruolo di prestatori di assistenza, il che incide pesantemente sulla loro salute e sulle loro finanze.
Sono queste le conclusioni emerse durante l’audizione intitolata Verso una vita indipendente, organizzata dal CESE (Comitato Economico e Sociale Europeo), organo consultivo della Commissione Europea.

Presieduta da Pietro Barbieri, presidente del gruppo di studio tematico sui diritti delle persone con disabilità del CESE, e moderata dai componenti del gruppo stesso Marie Zvolská e Hana Popelková, l’audizione ha riunito rappresentanti della Commissione Europea e della Presidenza slovena dell’Unione, Europarlamentari e gli esponenti di varie organizzazioni di persone con disabilità.
«Oggi in Europa – ha riferito Inmaculada Placencia Porrero della Direzione Generale per il Lavoro, gli Affari Sociali e l’Inclusione della Commissione Europea -, sono più di un milione i bambini, le bambine e gli adulti sotto i 65 anni che vivono in strutture di assistenza residenziale, mentre il numero di persone con disabilità che hanno 65 anni o più e vivono in istituti supera i due milioni. La nuova Strategia Europea per i Diritti delle Persone con Disabilitàsulla disabilità presta davvero molta attenzione alla transizione delle persone con disabilità verso la vita in comunità, ma se non si prepara la comunità stessa e non si mettono a disposizione servizi accessibili, compreso l’alloggio, questa transizione non potrà avere luogo».
«La Commissione Europea – ha aggiunto – fornirà orientamenti agli Stati Membri su come migliorare la vita indipendente, per garantire cioè alle persone con disabilità una vita dignitosa nella comunità, che consenta loro di prosperare nel loro ambiente locale e familiare e di evitare l’emarginazione e la segregazione sociale, imponendo di agire tanto al livello politico più alto quanto a livello locale. A tal fine occorre finanziare le politiche e i servizi, nonché prevedere una formazione e campagne educative volte ad eliminare lo stigma associato alla disabilità, oltre ad offrire un ampio sostegno alle famiglie».

«Va messa – ha sottolineato a tal proposito Luc Zederloo dell’EASPD, l’Associazione Europea dei Fornitori di Servizi per le Persone con Disabilità – una combinazione “ibrida” intelligente di assistenza familiare e sostegno locale e professionale. Le autorità pubbliche dovrebbero quindi garantire che tale sistema sia disponibile ed economicamente accessibile. Ciò richiede di includere i servizi a livello di comunità nel sistema generale e di formare il personale per sensibilizzarlo alle esigenze specifiche delle persone con disabilità. È inoltre importante combattere i pregiudizi e lo stigma, da cui nasce la percezione delle persone con disabilità come “incapaci di vivere in modo indipendente”».
«Qualunque sistema sceglieremo di adottare – ha concluso Zederloo -, esso dovrà basarsi sui diritti dell’individuo e della famiglia. Non dobbiamo infatti “riparare” queste persone, bensì aiutarle a vivere la vita che vogliono».

«Bisogna iniziare a considerare le persone partendo dal presupposto per cui ognuno ha un contributo da dare e dovrebbe poter scegliere di vivere in modo indipendente e di prendere decisioni sulla propria vita» a dirlo è stato Ines Bulic dsell’ENIL, la Rete Europea per la Vita Indipendente».
«Occorre inoltre garantire – ha proseguito – che le persone con disabilità non siano semplicemente trasferite in istituzioni più piccole in cui continuano a non aver alcuna capacità di decidere come vivere e con chi. Non dovrebbero essere consentite neppure le altre forme di segregazione, come i laboratori protetti o il lavoro senza diritti o retribuzione».
A tal proposito l’ENIL ha lanciato un invito ad agire per assicurare il diritto alla vita familiare a tutti i minori con disabilità e per questo, secondo l’organizzazione, «le famiglie devono essere sostenute fin dall’inizio in tutti i modi possibili, investendo pertanto in interventi di sostegno già nella primissima infanzia. Per questo è necessario garantire una valutazione precoce e interdisciplinare delle condizioni dei bambini e delle esigenze delle famiglie, anche per quanto riguarda i fratelli e le sorelle. Tale sostegno alle intere famiglie, infatti, è fondamentale se si vuole evitare la separazione delle famiglie stesse e garantire che i bambini crescano nelle migliori condizioni possibili».

Che la situazione sul campo sia tutt’altro che ideale, con il perdurante predominio in Europa dell’assistenza istituzionale e la carenza, se non l’assenza, di servizi adeguati, nonché di un sostegno finanziario o della prestazione di un’assistenza personale per il familiare con disabilità, è emerso con chiarezza durante l’audizione, così come il fatto che a causa di tali motivi, collocare le persone con disabilità in un istituto può apparire come l’unica alternativa per molte famiglie. E quindi la povertà e lo stigma associato alla disabilità fanno sì che il numero di bambini e bambine collocati in strutture residenziali sia ancora in aumento.
Petr Laník, un giovane con disabilità della Repubblica Ceca, ha riferito di avere trascorso ventisette anni in un istituto prima di trasferirsi in un alloggio protetto, dove ha imparato come vivere in modo più autonomo e ha avuto l’opportunità di condurre un’esistenza più indipendente. «Nel mio istituto – ha detto – il regime era rigoroso e avevo pochissimi contatti con la mia famiglia. Era triste stare lì senza mia madre, costretta a mettermi in istituto perché non aveva altre opzioni».

Le famiglie che scelgono di non collocare il figlio o il parente con disabilità in un istituto assumono il ruolo di prestatori di assistenza familiare, ciò che riguarda soprattutto le donne. Ma il prezzo che queste persone pagano è enorme: costrette infatti a lasciare il lavoro, rischiano di ritrovarsi addirittura sulla soglia della povertà, talché il mancato riconoscimento sociale del loro ruolo e il senso di isolamento e abbandono possono portare all’esclusione sociale o comprometterne gravemente la salute.
Un recente studio riguardante il Regno Unito, presentato durante l’audizione del CESE da Haydn Hammersley dell’EDF, il Forum Europeo sulla Disabilità, ha rilevato che il tasso di povertà passa dall’8 % della popolazione in generale al 28 % delle famiglie in cui vi è una persona con disabilità. Questo tasso aumenta ulteriormente per le famiglie in cui vi sia un bambino con disabilità, il 35% delle quali vive al di sotto della soglia di povertà. Infine, tra le famiglie monoparentali in cui un membro della famiglia abbia una disabilità, il 43% vive in condizioni di povertà.
«Tante famiglie – ha sottolineato Elena Improta, caregiver familiare e presidente dell’associazione romana Oltre lo sguardo – hanno perso ogni speranza. Soffriamo di depressione, attacchi di panico, patologie cardiache e malattie neurologiche. In sostanza, viviamo un dramma emotivo. Questo devasta i nostri nuclei familiari e ha un impatto sullo sviluppo psicologico dei nostri figli con disabilità».

Secondo Camille Roux di COFACE Handicap, la componente che si occupa di disabilità nella Confederazione Europea delle Associazioni di Familiari, «è tempo di riconoscere il lavoro fondamentale e il valore dei familiari che prestano assistenza e di tenere conto delle loro esigenze, se vogliamo garantire la transizione verso una vita indipendente per le persone con disabilità. Occorre perciò agire con urgenza a livello politico, facendo in modo che la transizione vada a sostegno dei familiari che prestano assistenza e non avvenga a loro spese. In altre parole, bisogna smettere di sostituire con la solidarietà familiare l’obbligo dello Stato di mantenere le promesse della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità». (L.L. e S.B.)

Per ogni altra informazione: Laura Lui (Ufficio Stampa CESE), laurairena.lui@eesc.europa.eu.

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