Essere un’assistente all’autonomia e alla comunicazione significa fare uno dei lavori più belli del mondo. Significa “stare” nella relazione educativa con gli alunni e le alunne, ponte affettivo, comunicativo e relazionale fra l’alunno con disabilità assegnato, i compagni e gli adulti significativi nella scuola. Significa osservare con sguardo “altro” e orizzontale i percorsi evolutivi possibili, immaginare le potenzialità, il futuro dell’alunno. Significa riportare costantemente la mission scolastica alla dimensione inclusiva dell’educazione, attraverso la progettazione di spazi di autonomia, dunque di crescita e di autodeterminazione per l’oggi e per il domani. Significa costruire linguaggi, comprensione e condivisione e moltiplicare le forme e i significati della comunicazione stessa, amplificando gli spazi di ascolto e accoglienza di uno e tutti gli studenti. Significa doversi preoccupare, liberi dai lacci e lacciuoli della programmazione didattica, della sfera relazionale e affettiva dell’alunno nel contesto scolastico; in una parola, programmaticamente, della sua felicità possibile.
Quanto questa figura abbia assunto importanza nel mondo della scuola è documentato da un dato dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani), fornitomi da Massimo Nutini: nel 1998, il numero dei dipendenti comunali che fornivano assistenza agli alunni con disabilità era di circa 75.000 di cui oltre 70.000 erano collaboratori scolastici che poi, nel 1999, passarono ai ruoli dello Stato, mentre rimasero nei ruoli degli Enti Locali solo gli assistenti specialistici impiegati nelle scuole italiane, il cui numero ammontava a 4.800, in gran parte operatori assegnati per la presenza di disabilità sensoriali; in questo 2021, quei 4.800 sono diventati 57.000.
In ventitré anni, quindi, si parla di un aumento di oltre dodici volte, segno, questo, di una scuola che è cambiata, passando dall’integrazione quasi “forzata”, disegnata dalla Legge 104/92 (che forse andrebbe rivista e aggiornata ai tempi…), per arrivare alla cosiddetta “scuola inclusiva” in cui a ognuno è dato secondo competenze, capacità e motivazione e bisogni. Ma anche, evidentemente, di una scuola contrassegnata da una richiesta specifica di competenza educativa e tecnica. Eppure…
Il “peccato originale” della Legge 104 attribuiva agli Enti Locali la competenza di gestione degli assistenti all’autonomia e alla comunicazione, probabilmente interpretando tali figure come socioassistenziali, con una mission, quindi, totalmente lontana da quello che è attualmente, molto più legata, invece, a una dimensione di scaffolding psico-educativo [per “scaffolding” si intende in generale l’aiuto dato da una persona asd un’altra per svolgere un compito, N.d.R.].
La Nota Ministeriale 3390/01 ha contribuito a fare ordine, suddividendo in due parti distinte l’assistenza, delegando quella materiale (o “di base”) allo Stato, attraverso i collaboratori scolastici, quella invece che verrà definita come specialistica agli Enti Locali, marcando quindi una prima distanza dalla concezione originale. E tuttavia, mentre quella Nota Ministeriale regolava le conseguenze della più grande migrazione di lavoratori da un ente a un altro, operata con la Legge 124/99 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), a seguito appunto del passaggio dei collaboratori scolastici allo stato, per qualche motivo che risulta incomprensibile, lo stesso passaggio non avvenne per gli assistenti specialistici che erano, allora, in numero assai inferiore; per altro un ulteriore simile passaggio è avvenuto nuovamente nel 2019-2020 con altri 10.000 collaboratori scolastici “trasmigrati” al Ministero dell’Istruzione.
Lo stesso copione è poi andato in scena con il Decreto Legislativo 66/17, che ha introdotto alcune modifiche alla Legge 104/92, ma non lo spostamento di competenza dell’assistenza specialistica, che forse si sarebbe potuto già fare già allora.
Ma perché è così importante che gli assistenti specialistici passino sotto l’amministrazione del Ministero? Per almeno cinque ragioni che qui di seguito vado a elencare.
1) Per il principio di equità sociale e garanzia dei diritti: in troppi territori, infatti, per “problemi di bilancio”, il servizio viene erogato poco, male o niente affatto (si veda in tal senso una denuncia dell’AIPD di Cosenza, l’Associazione Italiana Persone Down), spesso in ritardo e con tagli lineari e costanti delle ore di assistenza, nonostante esista una Sentenza della Corte Costituzionale in merito al diritto ad usufruire dell’assistenza scolastica (su quest’ultima si legga quanto prodotto da Flavio Fogarolo).
2) Per garantire continuità agli alunni: date le condizioni di lavoro e il “circo” dei bandi di assegnazione del servizio ai privati, la “durata media” di un operatore è di cinque anni, passati i quali si abbandona per disperazione, nonostante una motivazione spesso ferrea.
3) Per garantire qualità e uniformità del servizio: la frammentazione del servizio ha determinato miriadi di sigle e denominazioni diverse nei vari territori, così come percorsi formativi e professionali estremamente variegati (sempre in attesa dei famosi Profili Unificati già previsti dal citato Decreto Legislativo 66/17).§
4) Per rendere strutturale il cambiamento in senso inclusivo della scuola: si parla infatti di lavoratori “ospiti” o di “professionisti esterni” che, ad esempio, possono partecipare ai GLO (Gruppi di Lavoro Operativi sull’Inclusione), ma non vi sono obbligati, pur lavorando costantemente a contatto con l’alunno, non possono inquadrarsi in un sistema scolastico integrato, collaborativo, partecipativo, finendo per essere percepiti come lavoratori di volta in volta pensati come “collaboratori” (ossia, persone a cui va detto cosa fare e come farlo), “guardiani” (copertura delle ore, specialmente pomeridiane o impiego scorretto nelle mansioni di assistenza di base), che comunque difficilmente vengono considerati come professionisti all’interno di un’équipe di pari in cui ogni contributo si integra e si armonizza.
5) Per rispetto a lavoratori che hanno scelto fortemente la tutela degli alunni, nonostante: retribuzioni che non arrivino a 9 euro l’ora, decurtate se l’alunno è assente o la scuola è chiusa; fermi l’estate senza paga né disoccupazione (contratti part-time ciclici); privi del diritto del pasto a mensa, pure questo un momento educativo fondamentale; spesso impediti ad avere rapporti con i genitori; senza la possibilità di partecipare a ogni forma di condivisione e coordinamento della vita scolastica, come gli incontri di programmazione o i GLI (Gruppi di Lavoro per l’Inclusione).
È possibile che fino a qualche anno fa (anche un paio) moltissimi potessero far finta di non sapere o di non sapere davvero, ma oggi è impensabile che vi sia ancora qualcuno che abbia a che fare con il mondo della scuola, o dei diritti, o all’interno delle Istituzioni preposte, che non conosca la situazione. Né posso credere o immaginare, che si possa ritenere che va bene così. In caso contrario, attendo smentita e assegno l’onere della prova contraria a chi mi ritenga in errore.
Credo dunque che il perdurante silenzio che si abbatte diuturnamente sul destino dell’assistenza scolastica specialistica debba trovare una spiegazione strutturata. E potrebbe, a parere di chi scrive, essere determinato dalle leggendarie “tre scimmie” del titolo.
La “scimmia” che non vede, ovvero il Ministero del Lavoro, che nel 2021 permette lavoro a cottimo, part-time ciclici verticali, contratti privati enormemente sottodimensionati rispetto a quelli pubblici, nessuna tutela pensionistica (la particolare disciplina delle Cooperative Sociali determina una contribuzione minima) o riconoscimento di usura professionale; Cooperative Sociali che non hanno soci, bensì dipendenti (dunque aziende vere e proprie con tassazioni irragionevolmente agevolate).
La “scimmia” che non sente, ossia, ovviamente, il Ministero dell’Istruzione, consapevole dell’”utilità” di questo personale, ma poco disposto, forse, a riconoscere questa importanza e ad assumersi l’onere, anche economico e organizzativo della loro gestione.
La “scimmia” che non parla, vale a dire tutti gli uomini e le donne di buona volontà che hanno a cuore i Diritti di Uno e di Tutti, quindi le associazioni, i genitori, il mondo accademico e quello della scuola italiana in primis (i miei colleghi…), nonché il sistema di informazione.
In realtà ci sono molte persone e associazioni, fra le categorie che ho citato, che hanno unito la loro voce a questa richiesta di civiltà. Figure come quelle di Dario Ianes, Salvatore Nocera, Flavio Fogarolo, Raffaele Iosa, Massimo Nutini, Federazioni come la FISH, la FAND, Associazioni come i Genitori Tosti in Tutti i Posti, l’ENS, e mi scuso con chi ho dimenticato.
Ma non basta. Ci vuole una voce sola e tutti devono squarciare questo velo. Non solo per noi, ma per i nostri alunni e alunne, che hanno diritto ad un servizio degno. Perché l’inclusione è di tutti e perché l’inclusione non si fa domani. L’inclusione va fatta adesso, stabilizzando non solo i docenti di sostegno specializzati, ma anche gli assistenti specialistici all’autonomia e alla comunicazione.
Psicologa clinica, formatrice, assistente specialistica all’autonomia e alla comunicazione (paola.dimichele1974@libero.it).
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