Roberto Tarditi, che lottò per il diritto di diventare un uomo

di Domenico Massano*
Insieme all’amico Piero, con cui aveva avviato una delle prime esperienze di vita indipendente da parte di persone con gravi disabilità, dopo il troppo “tempo senza vita” al Cottolengo di Torino, Roberto Tarditi, morto di Covid all’inizio di quest’anno, è stato uno di quegli instancabili “lottatori per i diritti di tutti” da non dimenticare mai. «Le sue battaglie - scrive Domenico Massano - sempre più sollecitano un impegno collettivo per porre fine alle logiche istituzionalizzanti alla base dell’inserimento delle persone con disabilità in impersonali e segreganti strutture residenziali»
Roberto Tarditi e Piero
Roberto Tarditi (a destra) con l’amico Piero, a una manifestazione per il diritto alla vita indipendente delle persone con disabilità

Mancato il 31 gennaio di quest’anno [se ne legga già un ricordo di Vincenza Zagaria e Giampiero Griffo sulle nostre pagine, N.d.R.], Roberto Tarditi ha lasciato un grande vuoto. Dopo gli “anni senza vita” passati all’interno del Cottolengo, il grande istituto per persone con disabilità a Torino, Roberto aveva scelto, con coraggio e dignità, di uscire e ricominciare a vivere in un appartamento insieme all’amico Piero (dando vita, all’inizio degli Anni Ottanta, a una delle prime esperienze di vita indipendente di persone con gravi disabilità), dedicando da quel momento le sue energie alla lotta per una vita libera per tutti e tutte: «Proprio per la lunga esperienza vissuta all’interno di un istituto – diceva -, dopo anni di svariate lotte, abbiamo deciso di costituire l’Associazione Mai più istituti d’assistenza [che] si batte contro ogni forma di emarginazione e contro i ricoveri che nascono dalla diversità o dalla debolezza».

Roberto era una persona stimata che vorremmo ricordare con alcuni insegnamenti racchiusi in due brani tratti dal libro Anni senza vita al Cottolengo, che racconta parte della sua storia di vita (e dell’inseparabile amico Piero).
«Sono nato nel 1945 e mi accorgo di essere vissuto fino ad un certo punto senza avere coscienza di me. […] Nessuno mi ha riconosciuto come suo figlio, come nipote, come fratello; nessuna casa è stata la mia casa; nessuno degli oggetti che ho toccato, usato, è stato veramente mio. […] So quel che sono oggi: un uomo di 55 anni affetto da tetraparesi spastica […]. Nei miei ricordi non c’è il bambino che sono stato, c’è solo una grande camerata dove io mi sono sentito tremendamente solo. La mia infanzia è dentro di me come una ferita profonda. La mia vita sarebbe stata diversa se… Non voglio pensare a quel che sarebbe potuta essere […] quel che conta è che ora ho riconquistato la mia dignità di uomo. Lotterò per sempre perché questo diventi un diritto acquisito di tutti […]. Io oggi sono un uomo perché ho affrontato questo mondo, perché questo mondo deve affrontare me e le mie difficoltà […]. Ed è contro certe mentalità, contro le barriere della nostra mente che bisogna fare i conti».

«Durante la mia vita ho dovuto lottare per ottenere il diritto di diventare un uomo. La mia vita ha acquistato un senso, ma ora, quando penso al mio futuro, a volte mi sento stanco. Stanco di lottare. Ho paura di non farcela più. Ho paura che i diritti che abbiamo così duramente conquistato siano di nuovo messi in discussione e che si torni indietro. […] Per questo non bisogna limitarsi a conquistare dei diritti, ma mobilitarsi perché diventino veramente esigibili. Bisogna renderci visibili agli occhi di tutti, far capire che esistiamo. Abbiamo bisogno della solidarietà degli altri, ma di una solidarietà che si concretizzi in lotte, richieste, rivendicazioni concrete per l’attuazione completa dei nostri diritti».

Roberto Tarditi è stato un instancabile lottatore per i diritti di tutti e per una società inclusiva, animato dalla capacità di intravedere sempre, anche nelle pieghe più oscure della vita, la possibilità di un mondo più umano e solidale.
Il Covid lo ha portato via, ma la sua lotta oggi assume ancor più un valore paradigmatico e sollecita un’adesione e un impegno collettivo perché sia posta fine alle logiche istituzionalizzanti alla base dell’inserimento in impersonali e segreganti strutture residenziali (RSA, RSD, ma anche molte comunità…) che, come ha drammaticamente dimostrato la pandemia, oltre a continuare ad essere (e forse ancor più) luoghi di discriminazione e negazione di diritti, sono state anche uno dei principali contesti di propagazione del contagio, di isolamento e di morte.

Pedagogista, educatore e formatore (domenicomassano@yahoo.it).

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