Negli ultimi anni in Italia si parla molto di più della figura del caregiver, la persona che presta assistenza in modo globale, continuo e gratuito ad un familiare non autosufficiente a causa di una disabilità o di patologie/situazioni legate a specifiche patologie o all’invecchiamento. Se ne parla perché tale figura, pur essendo stata formalmente riconosciuta a livello nazionale – la Legge 205/17 (articolo 1, commi 254-255-256) la definisce e ha istituito il “Fondo per il sostegno del ruolo di cura e di assistenza del caregiver familiare” –, essa non gode ancora di alcuna tutela concreta, una situazione che la espone ad una sistematica violazione dei propri diritti umani.
Esiste un Disegno di Legge (A.S n. 1461: Disposizioni per il riconoscimento ed il sostegno del caregiver familiare) che dovrebbe colmare questa lacuna, ma esso è fermo da tempo presso l’XI Commissione Lavoro del Senato ed è difficile stabilire se riuscirà a trasformarsi in Legge entro la fine di questa legislatura. Va inoltre precisato che, anche se venisse approvata, la norma – pur introducendo, tra le altre, tutele previdenziali minime, misure per la conciliazione tra attività lavorativa e attività di cura e di assistenza, misure di adeguamento dei Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) e dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) in favore dei caregiver familiari – non solo non modifica in alcun modo l’impostazione familistica del lavoro di cura, ma, nella formulazione proposta, la rafforza.
Come accennato, negli ultimi anni gli studi sul caregiving si sono moltiplicati, si sono costituiti anche dei gruppi specifici di caregiver impegnati nel rivendicarne una tutela giuridica, sono stati colti gli aspetti legati al genere (la consuetudine di attribuire i compiti di cura alle donne), e non è difficile che alcuni/e di loro prendano la parola pubblicamente per raccontare le proprie esperienze, spesso drammatiche. Le loro testimonianze sono una delle fonti primarie da analizzare per esprimere qualsiasi considerazione sull’argomento, sebbene non sia difficile individuare in alcune di esse delle ambiguità irrisolte.
In alcune narrazioni, ad esempio, sembra vi sia una sostanziale sovrapposizione tra le istanze del caregiver e quelle della persona di cui si cura. Che la persona che presta assistenza e la persona con disabilità esprimano due soggettività distinte non è in alcun modo messo in rilievo, né, ancora meno, che possano avere anche interessi confliggenti. Confliggenti non vuol dire illegittimi: una buona norma dovrebbe proporre una disciplina che permetta ad ogni individualità di soddisfare i propri interessi e di vedere rispettati i propri diritti. Se, ad esempio, l’interesse del caregiver è quello di mantenere il lavoro retribuito, e quello della persona con disabilità è avere un’assistenza continuativa, esplicitare questi due interessi e considerarli entrambi degni di tutela è un presupposto indispensabile per soddisfarli entrambi.
Per contro, in altre narrazioni vi è la tendenza ad insistere sulle contrapposizioni. Per cui, sempre ad esempio, non è infrequente che il riconoscimento della figura del caregiver sia messo in contrapposizione alla promozione della vita indipendente delle persone con grave disabilità.
In merito a questo rilievo è possibile osservare che – fermo il presupposto che tutta l’assistenza (sia quella gratuita e informale, che quella retribuita) rivolta alle persone con disabilità deve essere orientata a promuoverne l’autonomia e l’autodeterminazione – in realtà i due percorsi non sono in conflitto, nel senso che assolvono a funzioni diverse. Ad esempio, nel caso in cui la persona con disabilità sia un minore, la figura del caregiver è difficilmente sostituibile. Nei casi di persone con disabilità intellettiva è abbastanza improbabile che il processo di emancipazione dalla famiglia si compia al raggiungimento della maggiore età, dunque sarebbe meglio non escludere a priori il supporto dell’assistenza informale nel processo di distacco dalla famiglia d’origine, anche dopo che la persona in questione è divenuta maggiorenne. Negli altri casi la persona con disabilità e il/la caregiver dovrebbero essere messi in grado di scegliere se e cosa condividere, poiché l’assistenza informale può essere vissuta anche come un’esperienza di condivisione gradita alle parti coinvolte nella relazione, anche nell’ambito di soluzioni integrative dell’assistenza retribuita e autogestita. La questione, pertanto, non è se promuovere l’una o l’altra forma di assistenza, ma riconoscerle entrambe, per garantire la scelta e per rispondere ad esigenze diverse.
Forse, alzando lo sguardo, è possibile andare oltre queste letture che negano la differenza o che la radicalizzano. Ciò si può fare se ci si dispone ad assumere una “posizione laterale” rispetto al tema del lavoro di cura.
Non molto tempo fa Loredana Lipperini, giornalista, scrittrice e conduttrice radiofonica, commentando un fatto di cronaca, rifletteva sulla tendenza non nuova di una certa parte del mondo intellettuale a guardare con disprezzo verso “la gente”, i suoi gusti e le sue azioni, ritenendo tale atteggiamento non solo ingiusto ma anche controproducente. Nel tentativo di superare questa contrapposizione, Lipperini osservava che «nei momenti in cui non è possibile parlare di avanguardia, tocca, per non retrocedere, fare battaglie di latoguardia. Il che non significa essere pilateschi, ma provare a guardare da tutte e due le parti che si oppongono».
Ecco, l’impressione è che anche per riflettere sul lavoro di cura sia necessario mettersi in latoguardia e iniziare ad interrogarsi sulla relazione che intercorre tra chi presta assistenza e chi la riceve, cercando di capire cosa succede nei due “campi da gioco”. A farlo, balza subito agli occhi quanto la stessa distinzione tra chi presta assistenza e chi la riceve possa risultare fuorviante per diverse ragioni.
In primo luogo il fatto di distinguere tra un soggetto presentato come attivo (che presta assistenza) e uno presentato come passivo (che riceve l’assistenza) dispone ad una relazione in cui ai soggetti è attribuito un diverso potere. In secondo luogo definire il lavoro di cura in questo modo non dice niente sulla volontarietà di quella relazione: chi riveste il ruolo di caregiver è realmente libero/a nell’assumerlo? Chi usufruisce delle mansioni di cura ha scelto di ricevere quelle cure da quella persona? Quelle cure gli/le sono gradite? E andando oltre la volontarietà, la relazione tra caregiver e persone con disabilità costituisce, o può costituire, uno spazio di riconoscimento reciproco?
Abbiamo detto che la distinzione tra un soggetto presentato come attivo e uno presentato come passivo può indurre – e spesso induce – ad attribuire ai due soggetti un diverso potere. Questa attribuzione, che sembra così naturale, è legittima? Per rispondere, è necessario chiedersi se avere bisogno di assistenza costituisce un valido motivo per attribuire alle persone un minor valore o una minore dignità. È facile che riesca ad assumere questa prospettiva chi non si riconosce come soggetto vulnerabile ed esposto alle intemperie della vita, ma è abbastanza improbabile che lo faccia chi ha ben compreso che tra abili e disabili non esiste una linea di demarcazione netta. Per capirlo basta riflettere sul fatto che la stessa persona che presta assistenza, e che ora sembra trovarsi in una posizione di forza, è stata a sua volta destinataria di cure. Lo è stata sicuramente nei primi anni di vita, ma molto probabilmente lo è stata, o potrebbe diventarlo, anche in molti altri momenti della propria esistenza, ad esempio durante una malattia, in relazione a difficoltà di varia natura, in un periodo di depressione, davanti alla perdita del lavoro, in seguito ad un lutto, col progredire dell’età ecc. Pertanto sarebbe importante iniziare ad esplicitare che tutti gli individui, per motivi diversi, e in momenti altrettanto diversi, possono ritrovarsi sia ad essere fruitori/fruitrici di assistenza sia ad esserne prestatori. Anche le persone con disabilità non autosufficienti potrebbero ritrovarsi a dover organizzare l’assistenza dei propri genitori anziani, assumendo il ruolo di caregiver nei loro confronti poiché le mansioni di cura non possono essere ridotte a semplici attività manuali, ma richiedono organizzazione e coordinazione. Inoltre le stesse persone non autosufficienti potrebbero avere figli e figlie, e dunque essere chiamati a prestare cure genitoriali. Pertanto, ponendosi di lato, non è difficile scorgere l’interdipendenza della cura e come essa non riguardi solo le persone con disabilità, ma sia propria della natura umana. Questo mostra anche come l’attribuzione di un minore potere a chi ha necessità di cura non sia un dato naturale, ma piuttosto una costruzione sociale da sottoporre a critica e da rigettare.
Nel Disegno di Legge prima citato, l’aspetto della volontarietà del caregiver è assunto come un dato di fatto. Infatti, nella parte introduttiva è scritto: «Assistere una persona cara non autosufficiente ed esserle di aiuto nelle difficoltà di gestione della vita quotidiana costituisce una funzione cardine delle relazioni di convivenza, basate sulla libera scelta e alimentate da motivazioni affettive e sentimentali» (i grassetti sono un intervento di chi scrive in questa e nelle citazioni successive). Tuttavia, perché si possa parlare di scelta realmente libera, occorrerebbe che ci fossero delle concrete alternative alla cura informale prestata dai/dalle caregiver, ma allo stato attuale la risposta prevalente all’assenza o all’indisponibilità dei familiari a prestare assistenza continua ad essere l’istituzionalizzazione, e la circostanza che il Disegno di Legge assuma la libertà di scelta del/della caregiver come data, significa semplicemente che esso non intende modificare un’organizzazione dei servizi che attribuisce questi compiti alle famiglie, e all’interno di esse alle donne.
L’articolo 4, comma 1 del Disegno di Legge prevede che tra i documenti da presentare per l’accesso ai benefìci riconosciuti dallo stesso al/alla caregiver vi sia l’«atto di nomina del caregiver familiare, sottoscritto dall’assistito. Se l’assistito non può, per qualunque impedimento, sottoscrivere l’atto di nomina, quest’ultima [la sottoscrizione, N.d.R.] può essere espressa attraverso videoregistrazione o altro dispositivo che consenta all’assistito la propria manifestazione di volontà». Lo stesso assistito può scegliere di nominare personalmente il proprio caregiver (articolo 4, comma 2), e revocarlo in qualsiasi momento (articolo 4, comma 3). Ciò, almeno formalmente, attribuirebbe all’assistito un certo potere di contrattazione, se non fosse per il fatto che, anche in questo caso, perché la scelta sia realmente libera occorrerebbe predisporre servizi non ghettizzanti né discriminanti, alternativi a quelli familiari, cosa che solo raramente viene garantita.
Oltre a ciò, la stessa definizione di caregiver proposta dalla Legge 205/17, e ripresa dal Disegno di Legge con l’aggiunta della specificazione che il lavoro di cura è reso a titolo gratuito, circoscrive la platea dei soggetti ammessi a vedersi riconosciuto questo ruolo e, a tal fine, indica il coniuge, l’altra parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso o del convivente di fatto (come da Legge 76/16), un familiare o un affine entro il secondo grado, ovvero, nei soli casi indicati dall’articolo 33, comma 3, della Legge 104/92, un familiare entro il terzo grado (articolo 2, comma 1 del Disegno di Legge). Nella sostanza sono esclusi dal riconoscimento tutti i soggetti della cerchia amicale, quando questi non rientrano tra i coniugi o assimilati, familiari e affini, quelli che possono essere individuati con l’espressione “parentela alternativa”. Perché? Perché, come accennato, non vi è la volontà politica mettere in discussione l’importazione familistica del nostro welfare. La stessa impostazione che si ritrova anche nella Legge 112/16 (Disposizioni in materia di assistenza in favore delle persone con disabilità grave prive del sostegno familiare), meglio conosciuta come “Legge sul Dopo di Noi”, che già a partire dal titolo sottolinea come l’assistenza alle persone con disabilità grave competa in prima battuta alle famiglie delle stesse. E pazienza se la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, ratificata dall’Italia diversi anni prima del 2016 (con la Legge 18/09), non solo non prevede vincoli di questo tipo, ma riconosce alle persone con disabilità il diritto di «scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere e non siano obbligate a vivere in una particolare sistemazione» (articolo 19). Pazienza anche se con la popolazione che invecchia le famiglie saranno sempre più in difficoltà a reggere un sistema che non riconosce il lavoro di cura nel suo complesso (non solo quello dei caregiver), continuando a non attribuirgli una valenza pubblica, e non disponendosi a redistribuirlo trasversalmente ai generi e alla società perché non siano sempre le stesse persone – in larga prevalenza donne – a farvi fronte, comprimendo, talvolta sino ad annullarli, tutti gli spazi di autonomia personale.
Non vi è nell’associazionismo delle persone con disabilità una proposta che metta in discussione questo sistema. Per trovarla dobbiamo spostarci in àmbito femminista e fare riferimento all’Assemblea della Magnolia [se ne legga a questo link, N.d.R.]. Quest’ultima, partendo dal riconoscimento della vulnerabilità dei corpi (di tutti i corpi), propone una “rivoluzione della cura” che abbia i propri cardini nella relazione e nell’interdipendenza (intesa come valore fondante su cui costruire nuove pratiche di democrazia), e informi la propria azione ai princìpi di reciprocità, condivisione e accesso egualitario.
È facile intuire come, in questa prospettiva, anche la relazione tra caregiver e persone con disabilità possa diventare un luogo di riconoscimento reciproco. Qualcosa di diverso dalla cura acquistata sul mercato, o da quella concessa nel rapporto asimmetrico che spesso caratterizza le cure familiari.
Una cura della relazione che è già attenzione all’altro/a prima ancora di tradursi in mansioni di assistenza. Peccato che di tutto questo nel Disegno di Legge che dovrebbe disciplinare almeno una parte significativa del lavoro di cura (quello prestato dal/dalle caregiver) non vi sia traccia.
Sociologa, responsabile di Informare un’H-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli, Peccioli (Pisa), nel cui sito il presente contributo di riflessione è già apparso e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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