Una volta a cena mi trovavo con il mio amico Fabrizio e famiglia in un ristorante del centro di Bologna. Una trattoria tipica del Bolognese, con tanto di tortellini fatti in casa e Sangiovese.
Giunti al momento del dolce, Biccio (così tutti chiamano Fabrizio) mostrava al figlio Giacomo la tavoletta trasparente che uso per comunicare, giocando con le lettere. Un rettangolo di plexiglass su cui sono incise le lettere dell’alfabeto (con l’aggiunta della chiocciola, il mio indirizzo e-mail e l’indirizzo Internet dell’Associazione CDH).
Funziona così: con gli occhi indico sulla tavoletta le lettere che mi servono per comporre le frasi e il mio interlocutore, incrociando il suo sguardo con il mio, le legge ad alta voce, ricostruendo il mio discorso.
Giacomo era molto divertito da questo strano strumento diafano e Biccio sul momento ha pensato di approfittarne, per dare i fondamenti al bimbo (che ha solo quattro anni). Procedendo in ordine alfabetico, anche se sulla mia tavoletta la disposizione non è questa ma fa capo a un ordine logico che ho scelto io, abbiamo assistito in pratica a una lezione da prima elementare. Ad ogni lettera Biccio associava un’immagine, un segno di riconoscimento. La A di Albero, la BI di Babbo, la CI di Cacca, la DI di Daino (anche se mi sono chiesto come mai Giacomo sapesse cos’è un daino a soli quattro anni. Forse il padre lo schiavizza e gli fa pulire tutto con il panno di daino…), la E di Erba (ho avuto un sussulto al momento, un po’ troppo presto per simili esperienze…), la EFFE di Francesca (il nome della madre), la GI di Gatto e possiamo continuare così fino alla ZETA, ovviamente di Zorro (chissà poi se veramente Zorro firmava con la Z…).
Quando però siamo arrivati alla Acca è arrivata un’inaspettata pausa. Panico. Con me lì al suo fianco, il povero Biccio è entrato in crisi ed io con lui. Abbiamo incrociato i nostri sguardi preoccupati perché l’Acca ci ricordava l’Handicap o, nel migliore dei casi, l’ospedale. Retaggi culturali triti e ritriti che la rendono simbolo di impotenza, di malattia, di sofferenza.
Biccio non sapeva come districarsi, ma doveva avere solo un po’ di pazienza e molta più fiducia nelle capacità di suo figlio. È inutile, un bambino ha sempre più risorse di quanto ci si possa immaginare, più di qualsiasi adulto, forse proprio perché scevro dagli stupidi preconcetti che ci accompagnano nel nostro approccio quotidiano alla società. Non è vero che i bambini fanno “oh”! Non solo, quanto meno.
Infatti, il piccolo Giacomo è intervenuto spavaldo e inatteso: «Ma babbo, è la Acca dove atterra l’elicottero!».
Mentre tutti esplodevano in una risata liberatoria, pensavo all’immagine che il vispo Giacomino mi aveva fornito (sono un famelico divoratore di immagini): la Acca dove atterra l’elicottero, ecco un’altra figura capace di ribaltare tutto, utile a scardinare ogni nostro pietistico approccio “immaginario” al mondo della disabilità.
Ecco allora che la Acca smette di essere simbolo di Handicap o di Ospedale, luoghi che nell’immaginario collettivo rappresentano contesti di tristezza e di sofferenza.
Giacomo mi ha aperto gli occhi, la “H” accoglie l’elicottero, lo stesso che da piccoli ammiriamo a bocca aperta mentre taglia i nostri cieli; lo stesso che trasporta velocemente i potenti della terra o che ci aiuta a spegnere un incendio; lo stesso che il maresciallo Rocca adopera per le sue missioni; lo stesso che in Apocalypse now atterra sulle note della Cavalcata delle Valchirie di Wagner. E ancora lo troviamo nella pubblicità dell’amaro Montenegro, dove salvano un cavallo che è in un burrone (quello sì che è il vero gusto della vita!). Allora l’H diventa un volo rapido che attraversa i cieli, correndo in osccorso per superare velocemente ogni limite imposto dal contingente.
C’è voluto un bimbo di quattro anni per mostrarmi come una lettera possa rappresentare la possibilità di alzarsi da terra, di muoversi oltre le capacità umane, ma anche verso nuove potenzialità, verso nuove libertà, verso nuovi viaggi.
Mi sono svegliato di botto dallo stato di trance-da-cortocircuito-di-immagini-nel-cervello e subito ho richiamato l’attenzione di Biccio. Dovevo dire una cosa a suo figlio: «Giacomo, hai ragione, non ci avevo mai pensato. La H non è e non dev’essere più simbolo di handicap e di ospedale. La diversabilità è una megapista di atterraggio per elicotteri della fiducia, dell’autostima, della conoscenza, della cultura, della comunicazione e della capacità che ognuno di noi possiede per superare i propri limiti. La H non è una lettera muta, ma il suono delle pale di un elicottero».
A Giacomo.
*Claudio Imprudente è presidente del Centro Documentazione Handicap (CDH) di Bologna. Questo suo testo è stato curato da Edo Grandinetti.
Articoli Correlati
- L'integrazione scolastica oggi "Una scuola, tante disabilità: dall'inserimento all'integrazione scolastica degli alunni con disabilità". Questo il titolo dell'approfondita analisi prodotta da Filippo Furioso - docente e giudice onorario del Tribunale dei Minorenni piemontese…
- Sordocecità, la rivoluzione inclusiva delle donne Julia Brace, Laura Bridgman, Helen Keller, Sabina Santilli. E poi Anne Sullivan. Le prime quattro erano donne sordocieche, la quinta era “soltanto” quasi completamente cieca, ma non si può parlare…
- Violenza sulle donne con disabilità e comunicazione distorta Per una donna con disabilità non sempre è così facile chiedere aiuto in caso di violenze. Se si parla poi di disabilità intellettiva, una comunicazione distorta potrebbe significare non rilevare…