Com’è noto ai lettori di questo sito – che ne ha seguito le vicende passo dopo passo – si è svolta recentemente a New York la settima sessione del Comitato Ad Hoc riunito presso le Nazioni Unite per l’elaborazione della Convenzione sulla Promozione e la Tutela dei Diritti e della Dignità delle Persone con Disabilità.
In quella sede si è discusso, seppure in modo non conclusivo, di scuola, lavoro, sicurezza sociale, vita indipendente, riabilitazione, prevenzione, mobilità, accessibilità, il tutto centrato sulle strategie dei diritti umani e si sono conclusi accordi di massima su tutti i temi, in vista della stesura del documento finale.
L’atmosfera di consenso si è però interrotta quando sono state poste le questioni riguardanti la sessualità e il diritto alla famiglia, con i corrispondenti divieti e pregiudizi.
Ancora una volta, quindi, è stato dimostrato che questo tema trasforma la discussione da problema oggettivo a problema soggettivo ed emotivo. La razionalizzazione più ricorrente è: «La sessualità è un fatto privato e nessuno può vietare o consentire, quindi non occupiamocene».
L’argomento può essere analizzato da diverse prospettive: avere rapporti sessuali, avere relazioni affettive, procreare.
Vi sono persone che hanno difficoltà a realizzare l’atto sessuale, a conciliare la vita affettiva con le condizioni di mancanza di autonomia, a sentirsi oggetto di desiderio in un contesto di reciprocità. Tutto ciò provoca frustrazione dei bisogni e limitazione dell’autostima e dell’identità.
Esistono poi atteggiamenti sociali e pregiudizi secondo i quali l’espressione della sessualità da parte dei disabili provoca riprovazione morale, preoccupazioni genetiche ed esistenziali (ereditarietà della disabilità, gravidanze non desiderate), reazioni di disagio, rifiuto e talvolta ripugnanza. Si propongono allora soluzioni di sublimazione (castità, offerta della sofferenza), di contenimento (psicofarmaci, sterilizzazione) o di “trasformazione del problema”: compensare cioè la negazione con atteggiamenti di benevolenza, di amicizia, di compassione e di partecipazione (volontariato).
In diversi Paesi d’Europa (Scandinavia, Olanda, Germania, Belgio e ultimamente anche Svizzera) il problema è stato affrontato istituendo dei “servizi di assistenza sessuale” che offrono ai disabili dei due sessi, compresi gli omosessuali, prestazioni sessuali o di “tenerezza” (soluzione un po’ ipocrita che consente tutto fuorché il rapporto genitale), dietro remunerazione, da parte di chi pratica la prostituzione o di assistenti formati appositamente che si recano a domicilio, negli istituti o nei villaggi protetti. In alcuni di quei Paesi i servizi di tali “assistenti sessuali” vengono rimborsati dagli enti di sicurezza sociale.
Le problematiche di questi servizi, assolutamente rifiutati in Italia, sono complesse perché riguardano l’etica, la cultura, le emozioni, i sentimenti, le relazioni e l’organizzazione, ma spesso questa complessità viene usata come pretesto per ritardare soluzioni possibili o per mascherare rifiuti consci o inconsci.
Riguardo agli aspetti positivi, vi è quello di consentire un’espressione dei bisogni sessuali e la scoperta dell’esperienza del piacere e del rapporto interpersonale intimo da parte di persone il cui corpo è stato vissuto come luogo di sofferenza e di interventi medici o come un’immagine di diversità e di vergogna.
Per quanto concerne invece gli aspetti negativi e i rischi, si mette in evidenza che una prestazione sessuale centrata sul desiderio comprometterebbe le dimensioni della relazione, dell’amore, della reciprocità di coppia che dovrebbe sfociare in un progetto di vita e di intimità.
Per questa visione complessiva, idealizzata e improbabile della relazione sessuale, si vuole negare da parte di molti la pratica di prestazioni, professionali e remunerate, che abbiano tempi e regole predefiniti e che non prevedano un’evoluzione, oltre a quella biologica.
Alcuni sostengono addirittura che la mancanza della dimensione affettiva possa provocare un aumento della sofferenza esistenziale o determinare emozioni e conflitti non prevedibili, potenzialmente pericolosi per i partner.
In questo senso le valutazioni di psicologi, pedagogisti e sociologi possono rafforzare il pregiudizio e il divieto, ma non bisogna essere esperti di psicanalisi per capire che si tratta di argomenti “di evitamento e rimozione”.
L’unica seria obiezione, invece, quando si tratta di discutere del diritto all’esercizio della sessualità da parte delle persone disabili (ciascuna secondo le proprie caratteristiche e potenzialità), dev’essere quello di non confondere questa facoltà come una condizione di integrazione. Resta infatti il dubbio che l’approccio pragmatico dei Paesi che hanno istituito il servizio di “assistenza sessuale” venga proposto come esempio di integrazione.
C’è un libro (Dario G. Martini, La signora dell’acero rosso, Fratelli Frilli Editori, 2000) che racconta di un processo immaginario ad una giovane donna della borghesia parigina che offriva prestazioni sessuali a persone gravemente disabili.
Al giudice imperscrutabile e severo che l’accusa di depravazione, la signora risponde: «So che quanto sto per dire potrà essere usato contro di me, cioè non migliorerà certamente la mia situazione, ma ero quasi certa di non poter guarire quegli infelici né ritenevo di potermi fare, per loro, mediatrice verso l’assoluto… E allora… Perché? Per aiutarli, semplicemente, dopo aver messo in conto incomprensioni, vergogne e disgusti».
Al che il giudice replica: «Lei afferma di avere voluto aiutare i ragazzi portatori di handicap. Ammettiamo per ipotesi che il movente dichiarato sia attendibile. E le ragazze? Chi dovrebbe pensare alle ragazze? Altri sessuomaniaci, come lei?». E la signora: «Non lo so chi dovrebbe pensarci. Forse, per cominciare, basterebbe non considerare più la sessualità dei disabili – e delle disabili – come qualcosa di innominabile […]. Si approfittano di tutte le nostre paure per imporci le loro regole, la prima delle quali è la rassegnazione. Hanno tentato persino di convincerci che non vale la pena di fare alcunché dal momento che, dopo l’ultima maschera, c’è, a loro dire, soltanto il buio. Però non l’avranno vinta…».
*Presidente dell’ANIEP (Associazione Nazionale per la Promozione e la Difesa dei Diritti Civili e Sociali degli Handicappati).