Partiamo da una specifica vicenda marchigiana: l’autorizzazione alla realizzazione di una nuova struttura sociosanitaria di 175 posti [a Rapagnano, in provincia di Fermo. Se ne legga già in più occasioni anche sulle nostre pagine, N.d.R.], per avviare un’ampia riflessione che attraversa alcuni aspetti dei servizi sociali e sociosanitari, dalla domiciliarità alla residenzialità, dalla personalizzazione alla presa in carico, dai vari modelli ai finanziamenti, fino alle competenze istituzionali, ai criteri di autorizzazione e accreditamento, nonché alla costruzione dei sistemi di offerta. Ne parliamo con Fabio Ragaini del Gruppo Solidarietà di Moie di Maiolati Spontini (Ancona).
In questa analisi/riflessione sulle politiche sociosanitarie vorremmo partire dalla cosiddetta “vicenda Rapagnano”: la Regione autorizza la realizzazione di una nuova struttura da 175 posti letto, in una piccola cittadina in provincia di Fermo, rivolta a persone con disabilità, anziani non autosufficienti e con demenze, persone con disturbi psichici, malati nella fase post acuta della malattia. Una vicenda che mette insieme più aspetti: i modelli, le politiche, gli attori.
«Sì, penso anch’io che la “vicenda Rapagnano” sia abbastanza paradigmatica. Andiamo per punti. Oggi nelle Marche, come credo in tutta Italia, si possono realizzare nuove strutture di queste dimensioni, in cui vengano concentrate le esigenze di persone con necessità molto diverse. Certo, la normativa regionale non prevede che per le nuove realizzazioni sia possibile fare tutto in una palazzina, ma per essere in regola, basta realizzarne tre, una attaccata all’altra! Ad investire e realizzare questa struttura è un’impresa edile, che a sua volta affiderà a qualche soggetto, presumibilmente non profit, la gestione dei servizi.
Personalmente ho qualche dubbio che tutti quei posti siano autorizzabili, che si possano offrire nello stesso edificio 39 posti letto di RSA disabili [Residenza Sanitaria Assistenziale, N.d.R.] o che l’offerta di 70 posti di “Cure Intermedie” (che presto si chiameranno Ospedali di Comunità) possano intercettare una domanda territoriale di queste dimensioni. Ma questo conta poco. Quel che conta è che si possa concepire la costruzione ex novo di una struttura che preveda sei tipologie di servizi rivolte a persone dai bisogni e dalle caratteristiche evidentemente diverse.
Va notato che i “posti” da realizzare sono stati scelti, tenendo conto del fabbisogno autorizzabile, sulla base della maggior remuneratività. E vale la pena ricordare che la possibilità di realizzare nuove strutture di questo tipo è stata sancita nel luglio 2020, all’indomani della prima tragica ondata della pandemia, dalla Giunta Regionale Marchigiana di centrosinistra della precedente legislatura. E che, a parte pochissimi soggetti, e noi tra questi, nessuno ha avuto da ridire. Come abbiamo scritto in un comunicato, insieme ad altre organizzazioni, all’indomani dell’approvazione del Decreto di Autorizzazione, “il diabolico meccanismo che determina la possibilità di attivare posti autorizzabili secondo il fabbisogno, e la sostanziale mancanza di regole dettate dalla totale assenza di orizzonti di politica sociale, determina un sistema ad incastri che porta a mostri come questi. Prospettive di questo genere possono essere assunte solo da chi concepisce le politiche sociali (intese come interventi riguardanti sia la sanità che l’assistenza sociale) al pari di una qualunque attività commerciale. Una deriva vergognosa e inaccettabile. Qualcuno magari dirà che autorizzare non significa contrattualizzare (per i non addetti ai lavori: convenzionare), ma gran parte di questi posti potranno esserlo e, comunque, solo chi è capace di assemblare matematicamente, può concepire l’autorizzazione di 70 posti di cure intermedie (una sostanziale post acuzie) in un unico territorio, o 39 posti di Residenza Sanitaria Assistenziale per disabili. (alla faccia dei “moduli” da massimo 20!)”.
Il “modello Rapagnano”, sancito dai regolamenti regionali, è paradigmatico. Da un lato ci sbatte in faccia un’enorme arretratezza culturale, dall’altro rivela quanto questi servizi appartengano ad un mercato appetibile ad investitori privati, evidentemente perché remunerativo. Questa vicenda, inoltre, non richiama soltanto il tema della qualità di vita delle persone, ma anche la necessità di un ripensamento radicale della modalità di definizione del cosiddetto “fabbisogno” autorizzabile e convenzionabile, e del sistema di autorizzazione e accreditamento, che non possono essere slegati da quello che chiamiamo “sostegno alla domiciliarità”. Siamo davvero sicuri che, ad esempio, le persone con disabilità e le loro famiglie chiedano di realizzare strutture di questo tipo e non piuttosto un rafforzamento dei sostegni domiciliari ed eventualmente modelli abitativi di tipo familiare?
E ancora, è abbastanza paradossale che, nel momento in cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza indica la necessità di irrobustire il sostegno alla domiciliarità e di ripensare i “sistemi residenziali”, declinandoli in termini abitativi, si prevedano e si autorizzi la costruzione di strutture di questo tipo. Strutture, bisogna dirlo, che non sembrano dispiacere alla Cooperazione Sociale marchigiana, che, tranne l’eccezione di alcune piccole Cooperative radicate nel proprio territorio, nulla ha avuto da obiettare all’affermarsi di modelli di questo tipo.
Ho inoltre l’impressione che si stia progressivamente affermando, riguardo alle persone con disabilità, lo schema del doppio binario. Schematizzando: dove c’è buona autonomia si possono immaginare anche modelli abitativi e familiari, mentre, quando è presente complessità, ecco che arriva il bisogno di residenzialità, articolata nelle diverse tipologie di servizio. L’abitazione sparisce e si entra nella logica della struttura.
In conclusione, la vicenda di Rapagnano non ci dice solo che quel modello è del tutto inaccettabile, ma ci richiama anche a prestare cura ed attenzione alla lettura della domanda, o meglio, delle domande, perché le esigenze sono sempre personali e proprio su quella personalizzazione bisogna provare insieme ad immaginare e realizzare le risposte».
Quindi non parliamo solo di disabilità?
«No, certo. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza ha avuto il merito di riaprire il dibattito anche sui modelli di intervento e sui sostegni possibili, spingendoci anche a re-immaginare i nostri servizi, le modalità di finanziamento e della presa in carico. Mi sembra che centrale sia la questione del come. sostenere la domiciliarità: come lo faccio? “Residenzialità”: di che tipo? E quando utilizziamo il termine “non autosufficienza”, dobbiamo sapere che parliamo di un contenitore generico. Al suo interno, infatti, ci sono esigenze e condizioni individuali del tutto diverse, legate come sono all’età (adulti/anziani), alle condizioni di salute, alla situazione familiare, abitativa, ecc…
Il punto di partenza dovrebbe essere: di cosa hanno bisogno le persone e le famiglie. Quali sostegni chiedono? Che strumenti di ascolto e valutazione possediamo? Su questa base va costruito il mix delle risposte, che non può che essere elaborato insieme alle persone stesse e in un bacino di interventi possibili diversi e coordinabili fra loro».
Facile a dirsi, più complicato realizzarlo. Ed esiste poi anche il problema dei fondi…
«Ribadisco un punto: per personalizzare gli interventi, devi conoscere le persone, e qualsiasi sistema di offerta deve avere la capacità e le competenze per la lettura del bisogno. Quindi è irrinunciabile la presenza effettiva, reale e concreta, di luoghi di accoglienza, accompagnamento e presa in carico, che garantiscano l’appropriatezza concreta delle risposte. Non sono luoghi amministrativi. Per chi di noi, ad esempio, aveva scommesso sulle Unità Multidisciplinari come strumento per garantire tutto questo, si tratta di ammettere che, nella gran parte dei casi, esse non hanno raggiunto l’obiettivo. Non solo: sono spesso diventate lo strumento per definire percorsi a partire dallo stato dell’offerta e non dai contenuti personali della domanda. Un tradimento della loro stessa funzione. Ad esempio, nel sostegno alla domiciliarità delle persone anziane non autosufficienti (e ripeto, ogni definizione collettiva è generica e schematica), in alcuni casi può non essere adeguato un trasferimento monetario, volto a sostenere i costi dell’assistenza, perché la famiglia può comunque avere difficoltà nella gestione del congiunto. Ecco che allora sono necessari luoghi di valutazione, che diventano strategici per capire, insieme alle persone, come sia meglio rispondere alle diverse esigenze. E poi occorre avere effettivamente diverse possibilità di offerta, senza limitarsi a quella più semplicistica (troppo spesso rispondiamo alla complessità con la semplificazione) del trasferimento economico. Pensiamo, ad esempio, al Fondo Nazionale per le Non Autosufficienze: si tratta di un fondo sociale, la cui entità è molto cresciuta negli ultimi anni, mentre non mi sembra sia altrettanto cresciuto l’interesse per la valutazione degli esiti degli interventi. Per le Marche, ad esempio, in cinque anni (2016-2021) il Fondo è cresciuto di circa 7 milioni e mezzo di euro (da 11,3 a 18,9). Sempre nella nostra Regione, circa il 75% diventa trasferimento monetario (disabilità gravissima e ultrasessantacinquenni non autosufficienti con indennità di accompagnamento), con una quota mensile che va da 150 a poco più di 300 euro. Per gli ultrasessantacinquenni (non “gravissimi” e con redditi bassi), il contributo è di 200 euro mensili ed è alternativo ai servizi (ti do poco più di 6,5 euro al giorno, ma non devi chiedermi altro!). Come ho già avuto modo di dire, il Fondo per le Non Autosufficienze diventa, almeno nella nostra Regione, nient’altro che un ulteriore piccolo assegno, da aggiungere all’indennità di accompagnamento».
Torniamo al tema dei modelli degli interventi e delle attuali modalità di finanziamento riguardo ai servizi diurni e residenziali.
«I servizi rivolti alle persone con disabilità e non autosufficienti sono finanziati dal Fondo Sanitario, in base alle quote previste nei LEA [Livelli Essenziali di Assistenza, N.d.R.], e dal settore sociale con oneri a carico di utenti e/o Comuni. E tuttavia non sempre i percorsi sono lineari. Nei servizi diurni e residenziali rivolti ad anziani non autosufficienti è prevista una quota sanitaria e si chiede all’utente o alla famiglia di coprire la restante parte, in base a criteri di compartecipazione disciplinati dalla normativa ISEE [Indicatore della Situazione Economica Equivalente, N.d.R.] applicata dai Comuni. Nei servizi rivolti alle persone con disabilità, in genere, alla quota sanitaria si aggiunge una quota sociale, a carico del Comune, e una quota utente (sempre sulla base dei criteri ISEE sopra richiamati). Invece, nel sostegno alla domiciliarità delle persone anziane non autosufficienti oggi gli interventi domiciliari sono sostanzialmente sostenuti dal settore sociale (benché la normativa sui LEA stabilisca che anche per l’assistenza tutelare debba esserci compartecipazione al 50% tra settore sanitario e sociale). Negli interventi diurni e residenziali la quota sanitaria copre dunque una percentuale del costo del servizio, mentre non è così nei servizi domiciliari.
Uno dei temi oggetto di riflessione e discussione in questo momento, soprattutto nel settore della disabilità, riguarda il fatto che questi servizi, nel momento in cui vengono finanziati dalla Sanità (in genere con una percentuale che va dal 40% al 70%) assumono approcci e modelli di funzionamento più spiccatamente sanitari, con una forte connotazione prestazionale e basandosi su procedure e protocolli che hanno al centro la persona in quanto malato, con tutto ciò che ne consegue in termini di attività, organizzazione dei tempi e degli spazi di vita e caratteristiche del contesto relazionale. Se dunque le quote sanitarie sono fondamentali, perché garantiscono la sostenibilità economica dei servizi, allo stesso tempo li snaturano, attraverso una presenza maggioritaria di figure di tipo sanitario e l’imposizione di requisiti organizzativi e strutturali spesso mutuati da concezioni ospedaliere, che trasformano le comunità in reparti o nuclei.
Per altro, sempre in riferimento alla disabilità, l’esperienza della Legge 112/16 [Legge sul “Dopo di Noi” o “sul Durante e Dopo di Noi”, N.d.R.] e la sua proposta di “situazioni alloggiative”, alternativaealla “residenza/struttura”, sembra avere innescato, in questi anni, positivi processi di avviamento di soluzioni abitative in contesti urbani (appartamenti e abitazioni di piccole dimensioni), che però coinvolgono sostanzialmente persone con buone autonomie personali (seppur “gravi” ai sensi della Legge 104).
Si tratta, a mio parere, di una riflessione necessaria perché evidenzia i limiti e le enormi criticità dei “sistemi di offerta” attualmente in essere. Allo stesso tempo, nella situazione attuale, la rivendicazione di interventi e servizi di tipo esclusivamente sociale (per definizione più inclusivi, più legati alla comunità, meno proceduralizzati ecc.), non può non tenere conto dell’attuale composizione del finanziamento dei servizi. Occorre quindi evitare che la presenza di fondi sanitari non determini approcci assunti esclusivamente da modelli biomedici. Certamente il budget individuale di progetto può essere un ottimo strumento di ricomposizione della spesa».
In chiusura una riflessione finale sulla situazione delle persone anziane, soprattutto di quante vivano nelle residenze, ovvero la popolazione più colpita dalla pandemia.
«Qualcosa vorrà pur dire se non siamo riusciti a sapere quello che è effettivamente accaduto all’interno delle residenze. Lì vive un popolo di “invisibili” e, come tali, dimenticati. Ancora oggi si può dire che moltissimi vivano da “reclusi”. E se non sappiamo cosa sia effettivamente successo, è invece evidente che ci siamo abituati velocemente a non considerare affetti e relazioni come parte della cura. Mi pare abbastanza chiaro che li abbiamo considerati come non persone. Su tale tema consiglio di leggere Vita da vecchi. L’umanità negata delle persone non autosufficienti, pubblicato da Antonio Censi (Edizioni Gruppo Abele, 2021).
In questi anni le strutture per anziani sono sempre più diventate da un lato enormi contenitori con significativi investimenti del privato speculativo, dall’altro è prevalso il modello aziendale delle economie gestionali, nel quale l’attenzione è posta sull’organizzazione e non sulle persone per le quali il servizio stesso funziona. Ritengo erroneo pensare che ciò, anche se può essere una concausa, dipenda dal sottofinanziamento della spesa. Le persone diventano letti e poi tariffe e rette. Il mercato è entrato in maniera strutturale in questi servizi: in poco tempo dall’assistenza/beneficienza si è passati al “for profit”, un modello assunto, a volte, anche da soggetti con configurazione giuridica “non profit”. Parliamo soprattutto, delle plusvalenze che si producono contraendo salari e qualità dei servizi. Io penso che questi servizi siano incompatibili con la ricerca di profitto, perché si occupano di persone e della loro vita.
Detto questo, mi preme ribadire quanto già accennato precedentemente: la categoria della “non autosufficienza”, non può essere assunta in maniera univoca. Diventa fuorviante. Può comprendere persone gravemente malate che hanno necessità di supporto vitale, persone con demenze molto severe, e anche persone che hanno perso l’autonomia, ma sono totalmente integre dal punto di vista cognitivo. A queste diverse necessità occorrerebbe rispondere in maniera adeguata e appropriata, partendo, come richiamato precedentemente, dall’effettivo sostegno alle persone e alle famiglie che scelgono di restare a casa. E la dimensione domiciliare può e deve appartenere anche a chi a casa propria non può più stare: le residenze si devono connotare in termini abitativi, con dimensioni di vita e di cura che richiamano la normalità. E dove c’è casa, di solito ci sono anche relazioni significative e affetto. A tutto questo i nostri “approcci gestionali” sono (e si sono dimostrati) assolutamente indifferenti.
Gruppo Solidarietà. La presente intervista appare nella rivista «Appunti sulle politiche sociali» e viene qui ripresa per gentile concessione.
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