Ma hanno mai curiosato quegli illustri ostetrici e ginecologi inglesi che nei giorni scorsi hanno chiesto «la possibilità di uccidere i neonati con disabilità gravi», nella vita dei bambini con disabilità diventati adulti? Esula forse dalle loro competenze?
Lo sanno, loro e quei pediatri olandesi di Groningen che hanno sostenuto la soppressione di bambini nati con la spida bifida che questi ultimi non hanno vite caratterizzate da «sofferenze indicibili»? Che hanno invece sviluppi esistenziali ottimi? Che i loro genitori, fratelli e sorelle accanto a loro conducono una vita familiare simile a quella delle famiglie dove non esiste una persona con disabilità? E così tutte quelle famiglie che accolgono con sollecitudine e amore tutti i loro figli con o senza disabilità?
Questi signori e tutti quelli come loro – medici, ricercatori, politici, amministratori, cittadini comuni – che ritengono validi solo i propri pensieri e le loro azioni sanno che nel 1948 a New York si proclamò la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, intendendo per uomo tutte le persone senza distinzione alcuna?
Avranno sentito dire che nel 1989, sempre a New York, tutti gli Stati del mondo (ad eccezione degli Stati Uniti e della Somalia) sottoscrissero e ratificarono la Convenzione Internazionale sui Diritti del Fanciullo?
In quel documento si dichiarò – e quindi ciò divenne non solo legge, ma anche cambiamento di cultura e di atteggiamento verso i bambini – che l’importanza dei valori basilari espressi negli articoli 2, 3, 6 e 12 di tale Convenzione sono considerati come «principi generali». Infatti, la non discriminazione (articolo 2), l’interesse superiore del fanciullo (articolo 3), il diritto alla vita, alla sopravvivenza e allo sviluppo (articolo 6), il rispetto dell’opinione del fanciullo (articolo 12) costituiscono i valori guida della tutela dei diritti dei bambini, anche di quelli con disabilità. Addirittura nell’articolo 23 si sottolinea la necessità di maggiore attenzione per i bambini con disabilità affinché possano godere dei loro diritti al pari di tutti gli altri bimbi.
Forse questi signori non conoscono nemmeno l’esistenza, dal 1993, della Risoluzione ONU sulle Regole Standard per le Pari Opportunità di Partecipazione per le Persone con Disabilità, un testo elaborato da tutti gli Stati presenti all’ONU, con la collaborazione delle persone con disabilità, nel quale si dichiara che queste ultime, per partecipare alla vita sociale e quindi godere appieno di tutti i diritti e soddisfare anche tutti gli obblighi di cittadinanza, devono essere messe in grado di partecipare, fornendo loro pari opportunità ed eliminando la discriminazione nei loro confronti.
E che dire dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, quell’OMS che è un vero e proprio “santuario” dell’approccio medico per definizione, la quale – grazie all’influenza delle stesse Regole Standard – ha avviato un coraggioso processo di modifica della sua ICDH (Classificazione Internazionale della Disabilità e della Salute), presentando nel 2001 la nuova ICF (Classificazione Internazionale sul Funzionamento, la Disabilità e la Salute), strumento, quest’ultimo, attraverso il quale viene diffuso un “messaggio chiave” e cioè il riconoscimento che ogni essere umano può avere un problema di salute. Qualcosa, dunque, che non capita più solo a una minoranza, ma che può succedere a chiunque e che viene riconosciuto come esperienza umana universale.
Inoltre la causa di esclusione che viene spostata dalla disabilità all’ambiente il quale assume in questo un senso un ruolo fondamentale: se la persona, infatti, non può partecipare alla vita sociale, ciò non è a causa della sua disabilità, ma delle barriere e degli ostacoli che tale società costruisce.
E allora se la disabilità può capitare a chiunque e in qualsiasi tempo della vita, che differenza passa tra l’eliminazione del neonato disabile e quella di una persona diventata disabile? Se la nascita, secondo l’esimio John Harris – docente di bioetica alla Manchester University che ha commentato favorevolmente la presa di posizione dei ginecologi inglesi – e quindi il fatto giuridico che trasforma il “prodotto del concepimento” in persona (uomo o donna che sia) non viene considerata come fatto rilevante per l’applicazione delle tutele derivanti dai diritti dell’uomo ai neonati disabili, anche un evento traumatico o una patologia invalidante potranno essere intesi come elemento indiscusso della necessità di eliminazione della persona che ha subito il trauma o soffre di tale patologia…
Certo, la richiesta del Royal College of Obstetricians and Gynaecologists è terribile perché ci fa pensare che oggi nulla sia cambiato e che ancora la scienza costruisca delle “giustificazioni” alla soluzione della disabilità. Una condizione, quest’ultima, vista unicamente come “causa di sofferenze” per i parenti della persona che ne è affetta e come “sottrazione” di importanti risorse economiche che potrebbero essere più utilmente utilizzate per le persone sane.
Lo Stato dunque – arbitro della distribuzione delle ricchezze – dovrebbe farsi carico del “problema” che queste persone rappresentano e ucciderle avrebbe un duplice vantaggio: da una parte porrebbe fine alla sofferenza personale, dall’altra consentirebbe una distribuzione più razionale e utile delle risorse economiche.
Qualche tempo fa chi scrive, proprio da queste colonne, ha tentato di tratteggiare una lunga storia – dall’antica Grecia ai giorni nostri – contraddistinta da una vera e propria “assenza” delle persone con disabilità. Ed oggi è terribile scoprire ancora una volta che la disabilità non appartiene all’umanità, che se la storia ci ha “citato” è stato solo per proporre la nostra eliminazione o, quando non ci è riuscita, per proporre giustificazioni alla nostra esistenza.
Prima degli ostetrici e dei ginecologi britannici di questi giorni c’erano stati i citati pediatri olandesi dell’Università di Groningen che in risposta ad un documento del Gruppo di Lavoro sull’Etica della Confederazione degli Specialisti in Pediatria (CESP), nel quale erano state sollevate alcune osservazioni sulla cura intensiva neonatale (Ethical dilemmas in neonatology: recommendations of the Ethics Working Group of the CESP, pubblicato dall’«European Journal of Pediatric Surgery» nel 2001, n. 160, pp. 364-368), avevano preparato nel 2002 il cosiddetto “Protocollo di Groningen”, in collaborazione con la magistratura locale e presentato dal prestigioso «New England Journal of Medicine» (2005, n. 352, pp. 959-962). Un testo, quest’ultimo, che conteneva linee guida generali e specifici requisiti riguardanti l’eliminazione attiva della vita di neonati con gravi disabilità. Tale studio era stato redatto dopo l’osservazione di 22 (!) neonati affetti da spina bifida. Ed ora la magistratura olandese, in base a quel protocollo, non persegue quei medici che praticano l’eliminazione dei neonati con quelle caratteristiche…
Tutti questi fatti (non così isolati, semmai ben poco pubblicizzati) e la possibilità di valutare la “qualità genetica” di un embrione segnano la nostra storia passata e presente; è risaputo che con le nuove tecniche di fecondazione è possibile individuare l’embrione migliore che sarà scelto per essere impiantato. Oggi i genitori possono in sostanza passare in rivista il “pedigree” dei propri embrioni per scegliere il migliore. Chissà se in questo modo l’autonomia del futuro bambino si può dire a rischio, chissà se l’intervento dei genitori nella definizione delle sue caratteristiche si può considerare una negazione della sua libertà e della sovranità sul suo destino.
Altro quesito inquietante e conseguente: c’è una relazione ed eventualmente quale può essere tra la scelta individuale in cui viene rispettata la libertà del genitore a scapito di quella del bambino e le pratiche di eliminazione adottate da Hitler durante il Terzo Reich?
Ed ora arrivano questi “novelli Erode” che cercano di giustificare e promuovere l’eliminazione di quei neonati scampati, non si sa come, alla valutazione prenatale, affermando che la disabilità è «una sciagura fisica e psicologica per i genitori ed economica per la società».
Vorrei solo, a questo punto, che ci venisse riconosciuto il diritto di essere ascoltati in quanto persone con disabilità. Non è possibile, in nessun tribunale che possa definirsi giusto, emettere una sentenza senza prima ascoltare il “presunto colpevole”. Quando invece si tratta di persone con disabilità, questo diritto viene negato e sembra proprio che il “giudice” possa arrogarsi la facoltà di saperne più dell’interessato.
Dai vostri luoghi di studio, dai vostri laboratori dite che le nostre vite sono «vite senza dignità». Ma avete mai chiesto alle persone (che voi chiamate, ahimè, con l’appellativo della disabilità: i miodistrofici, i down, i cerebrolesi, gli idioti ecc.) un parere sulla loro vita? Quale etica è quella che esplora e indaga sulla qualità della vita delle persone con disabilità, partendo dal punto di vista del medico? Che ne sa mai quel medico di come si sia sviluppata la mia vita se egli non mi ascolta? Che ne sanno gli specialisti in bioetica della vita delle persone con disabilità se osservano solo la disabilità e non la persona?
Ora più che mai credo sia il momento che noi, persone con disabilità, partecipiamo ai comitati di bioetica, per argomentare sulla dignità della vita portando il nostro punto di vista di persone. Che in questi consessi, cioè, non si parli più di disabilità, ma di persone con disabilità, titolari di diritti umani fondamentali e di conseguenza anche di diritti civili, economici e politici.
Un’ultima riflessione la vorrei riservare al ruolo dei mezzi di comunicazione. Se, riprendendo un mio pensiero precedente, la scienza costruisce le giustificazioni alla soluzione della disabilità, in questo momento il mondo dei media sta preparando il terreno a questa stessa giustificazione.
Sui giornali e sugli organi d’informazione radiofonici e televisivi passano quasi sempre solo le notizie clamorose con titoli ad effetto. Perché strillare scandalizzati se questo o quel luminare parla di eliminare le persone con disabilità, se poi non si dà mai spazio a quelle notizie che possono contribuire a far crescere posizioni differenti?
Dov’eravate il 25 agosto di quest’anno quando all’ONU abbiamo scritto e definito la nuova Convenzione sui Diritti e la Dignità delle Persone con Disabilità?
Dove siete quando lavoriamo a stretto contatto con la Commissione Europea, con il Parlamento continentale o il Consiglio d’Europa sulla definizione dei Piani d’Azione Decennali riguardanti le politiche sulla disabilità?
Dove siete quando con le nostre associazioni lavoriamo all’interno delle università come consulenti e docenti? Quando con le Amministrazioni Locali definiamo i Piani Politici e Sociali? Quando iniziamo percorsi di formazione sull’etica, sulla qualità della vita, sulla libertà di scelta, sulla non discriminazione che vedono i nostri associati collaborare con enti e persone estranei alla nostra rete?
Poco o nulla avete mai scritto né scrivete di questo. Siamo forse anche per voi solo dei poveri “fenomeni da baraccone” da usare per titoli ad effetto, siamo forse come la “donna cannone” da mostrare al circo per attirare la curiosità dei vostri lettori?
E allora non stupiamoci troppo: se delle persone con disabilità si parla solo per dire che la loro è una vita senza dignità, come sorprenderci se poi la pubblica opinione alla fine conviene che «sì, la loro è proprio una vita di merda»?.
*Presidente del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità).
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