Caro Alberto Torregiani, ho letto con emozione le interviste che hai rilasciato alla notizia dell’arresto di Cesare Battisti. Vivi in sedia a rotelle da quando, il 16 febbraio del 1979, una pallottola destinata comunque ad uccidere tuo padre, “colpevole” di essere un orefice, ha raggiunto, nella sua traiettoria impazzita, con precisione millimetrica, la tua spina dorsale, recidendo la linfa vitale del midollo e imprimendo alla tua esistenza di quindicenne normale una svolta imprevedibile e crudele, definitiva nella sua semplicità di sentenza: paraplegico.
Scrivo con questa precisione perché vivo e lavoro in sedia a rotelle come te, per una malattia genetica dalla nascita e non per un evento drammatico come il tuo. Ma naturalmente negli anni ho conosciuto decine e decine di paraplegici di ogni età, in sedia a rotelle per un incidente stradale o per un infortunio sul lavoro. Uno solo era in carrozzina per una pallottola, ma era un rapinatore, raggiunto da un proiettile della polizia durante una fuga finita male.
Mi sono soffermato perciò in silenzio sulla tua frase drammatica e forte: «Il vero ergastolo è il mio». E parli chiaramente della sedia a rotelle, come una condanna a vita.
Io penso di aver capito che cosa volevi dire, nel tuo ragionamento forte e paradossale: c’è una persona condannata all’ergastolo, che non sta pagando il suo conto con la giustizia, e finalmente la sua latitanza si conclude sulla spiaggia di Copacabana. Per la sua ideologia ha organizzato e compiuto delitti comuni e oltre alla morte di tuo padre, ha di fatto decretato la tua sorte a vita, infliggendoti una pena terribile, inaccettabile. Una sorta di “ergastolo” appunto.
Ti scrivo, caro Alberto, perché comprendo perfettamente l’orrore e la rabbia. Però forse non ti accorgi di una conseguenza involontaria, e purtroppo grave, insita nella tua frase, che immediatamente per i giornalisti diventa il titolo forte sul quale imporre la notizia: sedia a rotelle uguale ergastolo.
Non hai idea di quanta fatica io e tanti altri come me hanno fatto per cercare di togliere questa equazione psicologica. La sedia a rotelle di per sé è uno strumento di locomozione, è un ausilio per tornare a muoversi, a vivere liberamente. Ne sono certo, la sedia a rotelle, se non puoi camminare, è libertà dal bisogno di aiuto.
La tua frase, anzi più esattamente l’uso della tua frase, ancora una volta entra nelle case della gente come una sentenza precisa. La vita in sedia a rotelle non è una vita piena, è un ergastolo. Ho conosciuto genitori senza speranza, ragazzi con la morte nel cuore, e poi la vita è ripartita, certo in salita, difficile e nuova, ma spesso ricca e bella, degna di essere vissuta. Una vita nella quale c’è posto per tutto, il lavoro, l’amore, il tempo libero.
E infatti tanti paraplegici come te vivono se non serenamente almeno senza più quell’angoscia che traspare dalle tue parole. Ma penso di aver capito qual è la differenza. Loro non hanno un nemico davanti, il destino è stato duro, ma è il destino. Nel tuo caso l’ergastolo vero è stata l’ingiustizia, il “non ergastolo” di Cesare Battisti. È stato questo confronto impietoso fra la sua vita e la tua ad alimentare anno dopo anno il dolore e la rabbia. La giustizia, solo la giustizia, può placare (non vincere) il dolore. La sedia a rotelle non c’entra. Usala con serenità, e vivi, se ci riesci, sentendoti un uomo completo, anche da seduto. È questa la migliore risposta alla violenza inutile. Un abbraccio e un augurio da un “ruotante” come te.
*Per gentile concessione di «Affari Italiani».
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