La cultura giusta, quella della solidarietà, del rispetto, della vicinanza ai più deboli, deve alzare la testa. Subito. Non ci si può limitare a chiamarsi fuori.
Quello che accade ogni giorno, purtroppo, non è più l’esagerazione dei media che hanno bisogno di vendere o di audience. Sono segnali precisi di una violenza diffusa e tollerata. Una violenza individuale (liti familiari, sparatorie fra vicini di casa, insegnanti aggrediti e così via), una violenza di gruppo o di branco (violenze sessuali, aggressioni, spavalderie, bullismo), atti estremi (la persona indiana incendiata a Nettuno).
Violenza che si nutre di parole pesanti, di “tolleranza zero”, di proclami quotidiani. Violenza che ci spaventa e ci induce al silenzio, al tirarsi da parte.
Non è razzismo, dicono. Non so quando si possa definire il razzismo. Probabilmente l’atto in sé nasce dal “vuoto pneumatico” di ragazzi annoiati, ma avviene in un contesto nel quale, in ogni caso, gli stessi autori della vergogna di Nettuno parlano apertamente di un “indiano”, non di una persona, non di un uomo qualsiasi, come loro. Questo per me è razzismo. Abbiamo paura di dirlo, di riconoscerlo, di affrontarlo, perché vorremmo che non fosse così.
Dobbiamo reagire, in tanti, forse anche in modo pubblico, uscire dalle case e dai convegni, uscire dai blog e dagli articoli, uscire e raccontare agli italiani un’altra Italia, quell’Italia che crede nella vita, che ha bisogno di pace e di umanità, di un sorriso e di calore umano. Prima che sia davvero tardi.
*Testo già apparso in «FrancaMente», il blog senza barriere di Vita.blog (con il titolo Se non ora, quando?) e qui ripreso per gentile concessione.
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