Leggo in queste ore il ricordo commosso di tanti, tantissimi. Persone di ogni tipo e di ogni censo. Lettori della «Gazzetta dello Sport», grandi giornalisti, campioni dello sport, imprenditori. Ma anche tante persone disabili, che ti sono riconoscenti per il tempo che hai trovato nella tua vita.
Ricordo perfettamente quando ci siamo incontrati, all’angolo di via Solferino. Volevi che ti portassi i miei libri, per conoscermi meglio. Sei sceso in strada, come un giovane cronista, siamo rimasti a chiacchierare mentre io ero al volante della mia “Bat-mobile”, col finestrino abbassato. Ti sei subito incuriosito: volevi capire come facevo a guidare, a salire a bordo, ad azionare telecomandi, sedile girevole e altre diavolerie. Avevi lo sguardo che frugava dappertutto. È stata simpatia a prima vista, ovviamente. Mi sono fidato, sapevo che non mi avresti sfruttato per aggiungere qualche pagina facile al tuo libro in costruzione. Hai dedicato anche a me parole non banali, riflessioni da giornalista ricco di mestiere, senza alcuna presunzione, senza retorica.
Il tuo libro E li chiamano disabili resta un punto fermo in Italia. Ci sono alcuni che storcono il naso, sostengono che il tuo linguaggio era troppo schietto, hai valorizzato solo gli “eroi”, mentre migliaia di persone soccombono nel grigiore e nella fatica di vivere.
Ma tu non volevi affatto incensare i migliori, a scapito degli altri. Avevi capito che per parlare a tutti, anche a coloro che si sono sempre girati dall’altra parte, quando sentivano la parola handicap, era necessario raccontare storie vere, interessanti, riconoscibili, emotivamente forti.
Ecco perché la foto di copertina, con la leggiadra azione di danza di Simona Atzori, capelli sciolti e gambe verso il cielo, nella sua bellezza sintetizzava perfettamente il messaggio: solo guardando meglio ci si accorge che Simona non ha le braccia, occorre guardare bene, e cominciare a pensare.
Da quando quel libro è uscito non ti sei fermato un giorno, hai sempre accettato gli inviti a presentazioni nei posti più incredibili, da Nord a Sud.
Ci siamo trovati più volte, in sale piene, di gente normale, che veniva per ascoltarti ma anche per dire qualcosa, per testimoniare dal basso che avevi ragione, che avevi finalmente dato voce a un mondo senza parole.
Potevamo contare su di te, rispondevi sempre al cellulare, con una voce squillante e allegra. E secondo me te ne sei andato con il medesimo stile, senza avvisare, da uomo libero e forte, uomo del Sud trapiantato a Milano, solido come una roccia, tenero come un bambino. Grazie Candido.