Questa – com’è ormai noto – è la settimana della Terza Conferenza Nazionale sulle Politiche della Disabilità di Torino. Non riuscirò ad andarci, ancora non mi sento in condizione di lasciare il mio rifugio domestico per più giorni, e così intensi. Ma seguirò per quanto possibile nel migliore dei modi questo appuntamento che – pur con i limiti di un’organizzazione concentrata in tempi strettissimi – resta comunque l’unico momento istituzionale di alto livello per confrontarsi sui temi fondamentali, dalla vita indipendente all’accessibilità, dai servizi socio-sanitari all’inclusione sociale.
Non è il G8, certamente. Ma per quasi tre milioni di cittadini italiani è un momento dignitoso per discutere, proporre, raccontare. Confluiscono a Torino le istituzioni, le associazioni, gli esperti, i protagonisti di tante battaglie civili, da Nord a Sud. Insomma, c’è materia prima per fare del buon giornalismo. E invece temo (sperando di essere clamorosamente smentito), che anche questa volta, come nelle precedenti edizioni (una, nel ’99, organizzata da un governo di centrosinistra, l’altra, nel 2003, da un governo di centrodestra), saranno le edizioni locali dei quotidiani a raccontare la Conferenza, con l’aggiunta delle agenzie di stampa, di qualche giornalista “di nicchia”, e poco più.
È previsto, in conclusione, l’intervento del ministro Sacconi, ma dubito che sarà attorniato dalle telecamere delle reti pubbliche e private. Accadde solo a D’Alema, allora presidente del Consiglio, intervenuto alla Prima Conferenza Nazionale. Ma i giornalisti, numerosissimi allora, erano quelli della politica, non del “sociale” (che poi non si sa chi siano), e così le domande al premier furono tutte e solo connesse all’imminente crisi di governo. Nei TG le immagini di D’Alema alla Conferenza Nazionale di Roma apparivano – per noi che eravamo lì presenti a migliaia – del tutto surreali, sganciate dal contesto, perché nessuno, in quella circostanza, spese un minuto di più per raccontare il mondo delle persone disabili.
I giornalisti dei quotidiani e delle televisioni non sanno quasi nulla della disabilità, neppure le parole giuste. Tritano tutto con i luoghi comuni, un po’ di colore, molta superficialità, e sempre partendo dal caso clamoroso, dalla protesta, dalla morte, dal disagio. Mai partendo dalla normalità della condizione umana.
Eppure, se posso dare qualche dritta, a Torino di storie da raccontare potrebbero trovarne molte, tutte interessanti. Ci sono persone con disabilità che girano il mondo in lungo e in largo, studiano, lavorano, si innamorano, sopravvivono in situazioni estreme, invecchiano, sono uomini e donne, non sono marziani. Possibile che la curiosità, molla di questo mestiere che non cambierei per nulla al mondo, non spinga nessun collega a chiedere al proprio direttore di essere inviato due giorni a Torino (non a Kabul)? Non si correrebbero grandi rischi, questo è sicuro, e al contrario si potrebbe perfino azzardare qualche scoop, qualche intervista fenomenale, divertente, ricca di umanità e di novità.
Credetemi, cari colleghi che vi imbattete magari per caso in queste note, c’è bisogno della mediazione giornalistica per raccontare un mondo che a volte fa fatica a trovare la chiave giusta di comunicazione, per paura, per stanchezza, per sfiducia. Perché non ci provate? Stupiteci con effetti speciali. Vi leggerò volentieri.
*Testo apparso anche in «FrancaMente», il blog senza barriere di Vita.blog, con il titolo: Appunti per i giornalisti.
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