Era il 1982 quando l’alpinista neozelandese Mark Inglis – durante la scalata del monte Cook, il più alto della Nuova Zelanda (3.754 metri) – rimaneva per due settimane intrappolato nel ghiaccio, subendo in seguito l’amputazione delle gambe, sotto il ginocchio.
Quella vetta, però, a distanza di vent’anni Inglis è già riuscito a scalarla di nuovo nel 2002, preparandosi così alle grandi imprese successive: nel 2004 il Cho Oyu (8.120 metri), sempre nella catena dell’Himalaya e poi l’Everest, la cima più alta del mondo (8.850 metri) che in sanscrito viene chiamata Sagarmatha (letteralmente “dio del cielo”), conquistata da Inglis nei giorni scorsi.
Caparbietà e profondo senso dell’avventura sono i principali tratti distintivi del carattere di questo quarantasettenne, che è riuscito anche a superare – sia fisicamente che psicologicamente – la rottura di uno degli arti artificiali avvenuta durante quest’ultima impresa, a 6.400 metri.
Da segnalare anche che la spedizione cui Inglis era al seguito aveva come scopo quello di raccogliere fondi per un centro cambogiano che realizza arti artificiali per le vittime causate dalle mine antiuomo.
Un grande in bocca al lupo, quindi, per la prossima avventura di Inglis, dopo questa sua incredibile sosta sul tetto del mondo.
(Crizia Narduzzo)
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