La vita appartiene solo alla persona che la vive

di Silvia Cutrera
«Per quanto la solitudine o l’assenza dello Stato oscurino un orizzonte di speranza, togliere il diritto di vivere a una persona che non ha scelto di morire rimane un omicidio, un atto di estrema violenza»: lo scrive Silvia Cutrera, donna con disabilità e attivista per la promozione dei diritti delle persone con disabilità, fornendo il proprio contributo di riflessione al tema degli omicidi-suicidi che da qualche settimana trova spazio sulle nostre pagine. «La vita appartiene alla persona che la vive – conclude Cutrera -, la sua volontà è sovrana nel bene e nel male»
Richard Dreyfuss in "Di chi è la mia vita?"
L’attore Richard Dreyfuss in una scena del film “Di chi è la mia vita?”, citato da Silvia Cutrera

Di chi è la mia vita? è il titolo di un film del 1981 che narra le vicende di uno scultore famoso che ha un incidente stradale e rimane paralizzato, tetraplegico e bisognoso della dialisi per vivere. Trattenuto in ospedale per le cure, ingaggia una battaglia legale per essere dimesso e morire. Il giudice gli darà ragione e lo scultore lascerà l’ospedale (Whose Life Is It Anyway?, film diretto da John Badham, con Richard Dreyfuss e John Cassavetes, 1981).

Avevo visto il film qualche mese prima dell’incidente stradale al seguito del quale ero diventata una donna con disabilità, e ricordo che durante la visione di quella pellicola mi ero scoperta favorevole all’eutanasia. Dopo lunghi mesi di riabilitazione, necessari a ricomporre la vita spezzata, l’antica mia volontà di porre fine all’esistenza in caso di disabilità e non autosufficienza non era poi così immediata e urgente. Qualcosa era cambiato, avevo scoperto che era possibile continuare a vivere con un altro punto di vista.
Negli anni seguenti, alla domanda che spesso mi veniva rivolta («Come fai a vivere così?… io al tuo posto non riuscirei… che forza… che coraggio…»), opponevo la consapevolezza di far parte di un mondo parallelo in cui il valore della vita corrispondeva ad altre capacità: accettare le cose come sono, migliorare il contesto in cui esse si manifestano.

Noi non vediamo le cose come sono, vediamo le cose come siamo titola un recente articolo di Simona Lancioni [ripreso su queste stesse pagine con il titolo “Riflessioni ‘a bocce ferme’ su quei casi omicidio-suicidio”, N.d.R.] sulla questione omicidio/suicidio agito dal caregiver nei confronti di una persona di cui si prende cura e la citazione dal Talmud, che dà il titolo a quel contributo, mi trova d’accordo, così come le argomentazioni di Simona Lancioni.

Quando leggo nei fatti di cronaca il racconto della disperazione di chi uccide un familiare bisognoso di cure mi chiedo: che tipo di relazione e comunicazione vi è stata tra le parti? Che fine ha fatto il riconoscimento nell’altro della reciproca umanità? Dove si è persa la capacità di chiedere aiuto?
Per quanto la solitudine o l’assenza dello Stato oscurino un orizzonte di speranza, togliere il diritto di vivere a una persona che non ha scelto di morire rimane un omicidio, un atto di estrema violenza che tra l’altro, in caso di persona con disabilità, prevede penalmente anche l’aggravante.
Paradossalmente tali reati, nell’opinione pubblica, suscitano sentimenti di compassione e solidarietà, un effetto perturbante per molte famiglie alle prese con persone con disabilità nel proprio nucleo o famiglie che in prospettiva avranno persone anziane da assistere.
L’indignazione contro l’omicidio viene sempre unita alla rivendicazione di maggiori sostegni assistenziali e servizi, riconoscimento giuridico economico della figura del caregiver, miglioramenti legislativi, un abbinamento emotivo, questo, condivisibile, che però non deve fornire alibi o negare la mostruosità della scelta di morte.
Prevenire la violenza richiede una trasformazione dell’organizzazione della cura, la solitudine si contrasta creando servizi di prossimità, non solo assistenza, ma vicinanza e solidarietà.
La vita appartiene alla persona che la vive, la sua volontà è sovrana nel bene e nel male.

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