Nel nostro lavoro di informazione e sensibilizzazione sul tema degli abusi commessi nell’applicazione dell’amministrazione di sostegno, l’istituto di tutela introdotto nel nostro ordinamento giuridico con la Legge 6/04, abbiamo avuto modo di incontrare anche la giornalista Barbara Pavarotti, autrice di La prigionia dei vecchi e degli inutili, coraggioso docufilm realizzato per la regia di Roberta Zanzarelli, e con lo speaker Massimo Veschi (disponibile in versione integrale a questo link, mentre a quest’altro link ve n’è una presentazione, pubblicata su queste stesse pagine).
Come talvolta accade, l’attenzione a determinati temi scaturisce da vicende personali. Così oggi abbiamo modo di re-incontrare Pavarotti in un’altra veste, quella di una donna di 66 anni, compagna di vita di C., un uomo di 78 anni, col quale ha avuto una relazione di tredici anni, e che il 15 maggio 2022 è stato ricoverato in una struttura per anziani contro la propria volontà.
Riscontrato un principio di demenza, a C. è stato affiancato un amministratore di sostegno che oltre a disporre la sua istituzionalizzazione in una struttura privata, impedisce ogni contatto tra di lui e Pavarotti, sebbene lei risulti legalmente riconosciuta come sua compagna in virtù della disciplina delle unioni civili e delle convivenze (Legge 76/16). Pavarotti ha “implorato” che C. non venisse istituzionalizzato per rispettarne i suoi desideri – «Voglio morire a casa mia, non rinchiudetemi», ripeteva C. –, e si è offerta di prendersene cura gratuitamente, come del resto aveva fatto sino a quel momento. Ma sia le suppliche di C. che quelle di Pavarotti sono cadute nel vuoto e il Giudice Tutelare, dopo undici mesi di istanze senza risposta, ha decretato che all’amministratore di sostegno spetta ogni potere, compreso quello di decidere su ogni incontro e contatto col ricoverato-amministrato. Una disposizione, quest’ultima, in chiaro contrasto con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, che invece vieta che ci si possa sostituire alle persone con disabilità, anche a quelle con disabilità psicosociali, e prevede che, se necessario, esse siano sostenute nella presa di decisioni, col vincolo di rispettarne i diritti, la volontà e le preferenze.
Quella cui di seguito diamo spazio è una lettera aperta che Barbara Pavarotti ha scritto a C. Non avendo la possibilità di dargliela personalmente, ha deciso di affidarla “al vento”. Dunque per una volta “ci facciamo vento”, nella speranza che questa ennesima storia di affetti forzatamente spezzati possa servire a mettere fine agli abusi e agli arbìtri commessi nell’applicazione dell’amministrazione di sostegno, attuando finalmente quella transizione verso i regimi decisionali supportati che il Comitato ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità ci chiede già dal 2016, e che il nostro Paese continua ad eludere. (Simona Lancioni)
A chi dovrei mostrare i tramonti?
C., povero tesoro, invecchiato in 13 mesi di 20 anni, scrivo questa lettera, che forse mai leggerai, al vento. Nessuno te la consegnerà mai, perché, da quando sei stato portato via da casa, non so più nulla di te. Quella casa che ti eri comprato con tanta fatica e che conteneva il tuo passato, un passato ormai smantellato, mentre tu sei ancora in vita, e per fortuna non lo sai. Non sai che nel tuo letto ora ci dormono altri, gli affittuari. Non sai che anche la targhetta sul citofono è cambiata. Ci sono altri nomi. E il tuo divano, quello che comprammo insieme da Ikea, è fuori, sul pianerottolo, in attesa di essere smaltito.
«Giurami – mi avevi detto ad aprile – di non permettere a nessuno di portarmi via».
Ti chiedo scusa, non ce l’ho fatta a mantenere la promessa. Sei stato messo in quelle strutture per anziani che odiavi, perché tu non ci volevi stare con chi sta peggio di te. Tu volevi stare con persone più giovani. Invece no, sei vecchio. Devi stare nelle strutture per vecchi. E sei demente. Ma non lo eri così tanto quando ti ci hanno portato, lo so. So che hai chiesto per mesi di andartene. Ma non ne sei più uscito. Mai ti è stato concesso di poter tornare a casa almeno a scegliere da solo le cose che volevi portarti in struttura, come tu hai chiesto.
Non so dove sei, cosa fai, se parli, se cammini, che farmaci ti fanno prendere. Se questi farmaci ti fanno bene o male.
Se ti danno la cioccolata che ti piaceva tanto. Se ti friggono i supplì, come facevo io. Credo di no, ti daranno il cibo per vecchi. È per questo che sei dimagrito tanto?
Non sai quanto ti ho cercato per mesi, quanto ho implorato che fosse ascoltata la tua volontà. Nessuno l’ha mai fatto. I carabinieri me l’avevano promesso, invece ci hanno preso in giro. La tua volontà valeva meno di zero.
Sai che un pomeriggio di luglio, dopo aver finalmente scoperto dove stavi, mi sono presentata alla struttura per chiedere di vederti e i gestori mi hanno picchiata urlando «criminale, assassina, ti facciamo carcerare a vita?». Tu eri lì dietro, oltre le sbarre, non so se hai sentito qualcosa. Ho implorato anche la polizia, intervenuta, di farti sapere che ero lì, con te. Nulla, non ha voluto farlo. Sono finita all’ospedale, con un dito fratturato e contusioni multiple, solo perché il tuo amministratore di sostegno aveva dato ordine di cacciarmi.
Poi, a fine agosto, sei stato spostato di struttura perché lì – dove hai vegetato per quattro mesi senza fare assolutamente nulla, impazzendo – c’erano troppe ispezioni. La struttura si è rivelata irregolare, senza nemmeno le cartelle cliniche e personali dei ricoverati. Senza alcun piano di assistenza. Ti ho visto, in qualche foto mandatami da anime pietose, in carrozzella, legato. Ma tu camminavi, quando sei stato ricoverato.
Da quella struttura sei stato spostato come un pacco, solo perché lì la situazione era diventata tesa. Altrimenti ti ci avrebbero tenuto a vita. E comunque a vita ora sei sempre in un’altra struttura privata, ti stai pagando (anche se non lo sai) la tua morte a 2.000 euro al mese. Stai pagando coi tuoi soldi, che non bastano, per questo è stata affittata casa tua. Per poterti tenere rinchiuso ancora e sempre. Fino alla morte.
Ora, forse, non hai più una volontà, forse non sai più chi sei, dove stai, perché. Io sapevo che ogni giorno che passavi là dentro sarebbe stato fatale. Sapevo che in pochi mesi ci sarebbe stato il tracollo. Non ti è stato concesso di vivere “da libero” i tuoi ultimi mesi di lucidità. Non ti è stato più concesso di vedermi o vedere chi voleva venirti a trovare. Nel tuo ultimo messaggio telefonico mi hai detto: «Sono bloccato su tutto, spero che le cose cambino, chiamami per piacere». Scusa se non sono mai riuscita a farlo. Già dopo questo messaggio il tuo telefono non era più tuo, te l’hanno tolto subito.
Sai che ai tanti che ti mandavano messaggi WhatsApp per sapere dove stavi, il tuo amministratore di sostegno ha risposto fingendo che fossi tu: «Sono con la mia famiglia»? Non era vero. Eri in struttura. Sai che quelli che ti hanno cercato sono stati minacciati? A un tuo amico la struttura ha detto: «Abbiamo il suo telefono, la denunciamo». Esiste il “reato di telefonata”, secondo costoro.
Sai quanta gente ti ha cercato e sempre si è sentita rispondere: «No, non è possibile vederlo. Lui deve stare in pace, dimenticare tutto». Perché hanno voluto che tu dimenticassi a forza il tuo passato non facendoti più frequentare il mondo di prima?
E io posso solo ricordare tutto quello che abbiamo fatto insieme, quando nessuno ci vietava di farlo. La nostra complicità, perché ci dicevamo tutto, il nostro amore, i nostri battibecchi, la tv guardata abbracciati, le notti in cui ci si addormentava tenendoci per mano.
Tu ora non ricordi, ma io sì. E questo basta. Ma mi è vietato anche farti una carezza. «Per il tuo bene, dicono, per non turbarti». Ma quanto può essere pericolosa una carezza per chi sta nel mondo dell’oblio?
Ora non guardo più nemmeno il cielo. A chi dovrei mostrare i tramonti? Quelli per cui ci incantavamo nelle sere d’estate? Mi sono persa, ho smarrito il senso. Come te.
Passo davanti al negozio dove lo scorso anno siamo andati a scegliere il tuo regalo di compleanno, quel maglioncino lilla che ti piaceva tanto e distolgo lo sguardo, non ce la faccio. Ce l’hai ancora? Te l’hanno portato in struttura o stai sempre con la tuta? Anche quella te la regalai io, ma era per la palestra. So che nelle strutture è come in ospedale, non è che poi si guardi tanto all’abbigliamento. Dove si deve andare, in fin dei conti, chi si deve vedere? Sempre le solite facce.
Tu hai detto che stai in ospedale, col lettino con le sbarre, parli di «gente orribile, pipì, dolore», ma dicono che definisci la struttura così perché sei demente. Che invece è meravigliosa. Ma come può essere meraviglioso un mondo con le sbarre e non solo ai letti? Come può essere meraviglioso un mondo dove tutti ti comandano? A me sembra che questo mondo sia fatto di detenuti che non hanno commesso alcun reato, dove è sancita “la fine pena mai”. Se non con la morte. Detenuti che hanno l’unica colpa di essere fragili, anziani e quindi non degni di vivere diversamente.
Sai, ho chiesto di vederti per il tuo compleanno. Non mi hanno nemmeno risposto. Non mi hanno risposto quando ho chiesto di vederti per Natale, per il mio compleanno. Non è bello che tu in struttura non possa vedere nessuno, so che è una bugia quando dicono che sei tu a volerlo.
Sai che il tuo giudice, quello che deve decidere il tuo destino (e nessuno ti ha spiegato che sarebbe andata così) non legge le mie suppliche da mesi? Non si interessa a te e a come stai, perché ha tanto altro da fare. Nemmeno ti conosce, non ti ha mai visto.
Può un giudice tutelare fregarsene di una vita umana? Sì, lo può fare. I giudici hanno tanto potere e non sempre lo esercitano bene.
Questo giudice mi ha concesso un incontro a fine settembre e in udienza ha esordito così: «Non ho letto nulla e non intendo leggere nulla». Io sono rimasta raggelata. Al mio avvocato ha intimato di ritirare immediatamente tutte le istanze, altrimenti non mi avrebbe concesso di vederti. A me ha detto: «Lei è una giornalista. Se solo osa scrivere o parlare pubblicamente di questa storia, non le farò mai più vedere in vita sua C.».
Per questo ti chiamo C. non posso dire il tuo nome che ho nel cuore impresso a fuoco.
Ti ho visto, sì, anche se tu non lo ricordi, a fine settembre, a casa dell’amministratore di sostegno. Un incontro filmato integralmente come da disposizione del giudice, roba che neanche per le visite ai carcerati viene imposta. Ti ho ritrovato, ma tu eri ormai perso. Mi hai detto cose bellissime, per quel che potevi: «Sono rimasto angosciato che non ci si poteva più vedere. È stata una cosa che mi è mancata, guardavo il calendario, ero preoccupato perché mi rendevo conto che stava passando troppo tempo». Ma l’amministratore di sostegno ci interrompeva sempre, voleva che parlassimo d’altro, non di noi due.
E il giudice che doveva decidere, in base a questo incontro se io «sono pericolosa per te», non si è mai pronunciato. Come posso io essere pericolosa per l’uomo che volevo accudire per tutta la vita? Ce l’eravamo giurato, scusa se non ho potuto rispettare questo giuramento.
C., tu non sai nemmeno che significa avere un amministratore di sostegno, non te l’ha spiegato nessuno quando a marzo, all’udienza in cui sei stato trascinato (e tu non volevi, avevi paura) l’avresti capito. Ti hanno chiesto se avevi bisogno di assistenza e tu hai risposto: «Sì, grazie». Non sapevi che saresti diventato un prigioniero. Nemmeno io lo sapevo. Tutto – la nomina di un amministratore di sostegno, il tuo ricovero – è stato fatto di nascosto da me. Altrimenti avrebbero dovuto passare sul mio cadavere per farti questo. E a tua insaputa, mentre tu avevi il diritto di sapere cosa ti aspettava. Invece ti hanno tradito nascondendoti la verità. Il ricorso per l’amministrazione di sostegno è stato depositato quando tu ed io vivevamo insieme, non lo sapevamo. Poi ho letto che, in questo ricorso, io sono definita “l’estranea”. Io che ti stavo accanto e ti allargavo le mutande strette.
Ma il giudice non ha mai voluto verificare nulla. Come ci si può affidare a una giustizia tanto indifferente?
C., ogni mio pensiero, ogni istante, è rivolto a te. Ogni lacrima è per te, mio compagno di viaggio per tredici anni. Non doveva finire così. Spero che non finisca così. Ma ho una brutta sensazione, gli incubi arrivano nella notte insonne.
Com’è difficile morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi tocchi questo destino? Tu l’hai forse meritato? Io non so nulla. Eppure so tutto e vedo con esattezza cosa accadrà. Come l’ho visto dal primo giorno della tua scomparsa, quando ho implorato mezzo mondo di ascoltare cosa volevi veramente. E nessuno, pur potendolo e dovendolo fare, ci ha aiutato. Sapevo tutto, mi rifiutavo solo di crederci perché mi sembrava impossibile che tu dovessi rinunciare, per ordine di altri, a tutto quello a cui tenevi.
Sei arrivato in sogno. Io continuavo a chiederti cosa fosse successo e tu non rispondevi. Scuotevi la testa con un sorriso triste.
Ieri ho comprato tutte le cose che preferivi mangiare e poi le ho regalate al mendicante fuori dal supermercato, perché non so dove portarle, non so dove tu sia.
Non ho fatto in tempo a dirti per bene quanto sei stato importante in tredici anni. Quanto hai fatto per me. Perché hai fatto tanto. Soprattutto c’eri sempre, di notte e di giorno, in qualunque momento c’eri per me. E io non sono nemmeno riuscita a salvarti.
Puoi ascoltarmi? Sono io, Barbara. Dove sei? Spero che questa lettera non sia un addio. L’addio è stato deciso da altri, da oltre un anno. Non da te e da me. È crudele.
Il presente contributo è già apparso nel sito di Informare un’h-Centro Gabriele e Lorenzo Giuntinelli di Peccioli (Pisa) e viene qui ripreso, con alcuni riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.
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