Immaginate di essere un ragazzo che frequenta il primo anno di un Istituto Professionale (Indirizzo Servizi per la Sanità e l’Assistenza Sociale) e di dover studiare per la prima volta il tema della disabilità. Se tra i vostri libri di testo avrete a disposizione il volume Il laboratorio delle scienze umane e sociali (Edizioni Paravia), imparerete che «oggi (!) sono state introdotte nuove parole ed espressioni come “diversità e diversamente abile”, che intendono sottolineare un approccio positivo alla disabilità e mettere in evidenza il fatto che essere affetti da un deficit (fisico o mentale) non è un limite insormontabile, perché accanto a quelle che le mancano, la persona disporrà certamente di altre abilità».
Nessuno vi dirà però che la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità parla invece semplicemente di persone con disabilità, perché può anche capitare che non vi sia nessun’altra particolare abilità.
Scoprirete poi che la stessa Convenzione ONU sarebbe stata ratificata da venti (!) Paesi [in realtà, ad oggi, 186 Paesi, N.d.R.], tra cui l’Italia, con la legge 1279 (!!) del 2009 [in realtà Legge 18/09, N.d.R.] e leggerete che la causa della disabilità può essere «genetica, legata alla gravidanza o al parto o successiva alla nascita». Eppure, non troverete neanche una parola sul ruolo che la società ha nel costruire e non rimuovere barriere, come la Convenzione ONU invece ci dice.
Infine, apprenderete che per trattare la persona con disabilità come soggetto dotato di diritti occorre assumere la prospettiva «del prendersi cura». Il che è proprio un bel controsenso.
Se invece avrete nei vostri zaini il volume Percorsi di Metodologie operative (Edizioni Zanichelli), imparerete sin da subito che ci sono i «Bisogni del diversamente abile» (questo il titolo del paragrafo). Ma soprattutto che il «termine diversità solitamente distingue tutto ciò che si discosta dalla normalità», che è quello «che fa la moltitudine delle persone», mentre «tutto il resto viene considerato diversità».
Non basta: perché troverete scritto che «l’accettazione della persona disabile e la capacità di rapportarsi con lei è legata allo stato sociale e alla cultura di appartenenza».
Epperò le conclusioni vi rallegreranno, perché «si sta formando sempre più una nuova cultura finalizzata all’integrazione totale del disabile, non più visto come un peso, ma come una risorsa in grado di riequilibrare una società, per molti aspetti, individualista».
Mi chiedo se davvero i nostri ragazzi, che tra qualche anno saranno assistenti sociali o educatori, debbano acquisire concetti superati e approssimativi su un fenomeno tanto complesso come la disabilità.
Lancio un grido di allarme, sperando che autori, editori ed insegnanti che scelgono i testi possano dedicare una maggiore attenzione a un tema così delicato e magari, dalla prossima edizione, correggano l’approccio seguito.
Professore ordinario di Diritto Costituzionale nell’Università degli Studi di Milano in cui è Delegato del Rettore per Disabilità e DSA (disturbi specifici dell’apprendimento); delegato del Sindaco per le Politiche sull’Accessibilità del Comune di Milano.
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