Storia di Marco Cavallo, che continua a lottare contro ogni discriminazione

di Stefania Delendati*
«C’era una volta un cavallino di nome Marco che trainava il carretto della lavanderia…»: comincia come una favola la storia di Marco Cavallo, la scultura realizzata nel 1973 dai degenti nell’Ospedale Psichiatrico San Giovanni di Trieste, che da cinquant’anni gira per la penisola e anche all’estero, simbolo dell’apertura della psichiatria all’ascolto, portando un messaggio contro l’oppressione e ogni forma di discriminazione, tuttora pienamente attuale
Marco Cavallo
La scultura di Marco Cavallo

«C’era una volta un cavallino di nome Marco che trainava il carretto della lavanderia…»: comincia come una favola la storia di Marco Cavallo, la scultura realizzata nel 1973 dai degenti nell’Ospedale Psichiatrico San Giovanni di Trieste che da cinquant’anni gira per la penisola e anche all’estero, simbolo dell’apertura della psichiatria all’ascolto. Si fa largo portando un messaggio contro l’oppressione e ogni forma di discriminazione.
Alto 4 metri e montato su un carrello con ruote, Marco Cavallo non passa inosservato anche per il suo colore, un azzurro acceso che richiama la gioia di vivere e la libertà. Quella libertà che è il filo conduttore dell’avventura che lo vede protagonista e dell’esistenza delle persone che l’hanno voluto e difeso fin dalla sua nascita.

Marco era un animale vero, la celeste macchina teatrale itinerante è infatti la “controfigura” in legno e cartapesta del cavallo adibito al servizio lavanderia e al trasporto di rifiuti e materiale vario nel manicomio della città friulana. Erano stati “i matti” a chiamarlo Marco, loro che in quel luogo sopravvivevano lontano dagli occhi della società che divideva le persone in “dentro” e “fuori”. Un processo di rimozione per cui il “diverso” doveva stare dentro le mura del manicomio, fuori si fingeva che non esistesse perché faceva (e fa) paura confrontarsi con ciò che non corrispondeva alla “normalità” codificata.
La struttura di Trieste in quegli anni era però una felice parentesi di sperimentazione, merito del direttore Franco Basaglia che di lì a pochi anni avrebbe rivoluzionato la cura delle patologie psichiatriche con una legge che porta il suo nome e che all’inizio della storia che stiamo raccontando, all’attivo aveva già le innovative terapie avviate nell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia.
A Trieste aveva aperto il Laboratorio P, uno spazio dedicato all’espressione creativa e alla condivisione con gli operatori. Insieme, pazienti e assistenti, volevano costruire qualcosa che simboleggiasse la dignità dei malati e Marco diede inconsapevole impulso al progetto.
Era un cavallo anziano che non reggeva più la fatica, dal 1959 tirava quel carretto, nel 1972 ne venne decisa la soppressione. Le persone ricoverate non accettavano di separarsi da lui, proprio loro che erano considerate “inutili” capivano meglio di altri che quell’animale ormai stanco non era un peso. Presero carta e penna e scrissero una lettera alla Provincia di Trieste per domandare che Marco non venisse destinato al mattatoio, ma gli fosse concesso un pensionamento all’interno dell’ospedale per meriti lavorativi e per l’affetto che tutti al San Giovanni nutrivano per lui. Se ne sarebbero presi cura a proprie spese, in cambio si offriva una somma corrispondente alla vendita del cavallo.
L’appello venne scritto in prima persona, come se fosse stato redatto da Marco. Vennero esauditi, Marco avrebbe continuato a vivere con loro, al suo posto la Provincia avrebbe acquistato un motocarro. Era la prima volta che delle persone rinchiuse in manicomio si rivolgevano all’autorità, esprimendo un desiderio come avrebbero fatto dei comuni cittadini, era la prima volta che veniva riconosciuta la loro capacità di esprimersi, era la prima volta che venivano ascoltate nei loro bisogni.

Il cavallo Marco era diventato un’icona, al Laboratorio P il compito di renderla tangibile. Basaglia aveva chiamato per dare manforte il cugino Vittorio, pittore e scultore, e lo scrittore, poeta e drammaturgo Giuliano Scabia. Li aveva “sfidati”: «Vediamo cosa sapete fare in un manicomio che si apre».
Un giorno incontrarono una donna ricoverata, Angelina Vitez. Stava dipingendo un cavallo e lo aveva diviso in sei sezioni, in ognuna delle quali aveva disegnato una cosa diversa: un vaso di fiori, una pentola, un’oca, una casa, un Pinocchio, un albero. Le chiesero chi era, lei rispose che era Marco, il cavallino della lavanderia. Ecco che l’idea diventò realtà: un enorme cavallo la cui pancia avrebbe contenuto scritti, disegni, racconti di sogni e istanze, un’esplosione di colori e parole che avrebbe sovvertito la disciplina manicomiale, svelando l’infondatezza dell’omologazione.
Ci lavorarono per due mesi, insieme a Giuseppe Dell’Acqua detto “Peppe”, allievo di Basaglia che oggi perpetua la memoria di quei giorni e online ci aggiorna con costante attenzione sui viaggi di Marco Cavallo. Decisero di portare la scultura lungo le vie di Trieste, ma in un triste paragone con lo stato di reclusione forzata cui erano costretti i degenti, non passava dalle porte dell’ospedale.
Storica la foto di Franco Basaglia che, armato di una panchina di ghisa, sfonda un’architrave per far passare la monumentale opera. Quel 25 febbraio 1973 la città accolse il festoso corteo con le serrande sbarrate e le strade semivuote, l’ostilità era evidente. Scrisse Scabia: «È come se il muro che il cavallo ha dovuto rompere per uscire dal manicomio ce lo portassimo addosso».
Tuttavia quella sfilata segnò un punto di non ritorno, ormai il cammino dei diritti e dell’uguaglianza era tracciato. Nel 1978 la Legge 180 chiuse le istituzioni manicomiali, sancendo il diritto delle persone con malattie mentali di essere parte della società, grazie a nuovi modelli terapeutici che pongono la persona al centro.

Mezzo secolo dopo Marco Cavallo galoppa da nord a sud e anche all’estero, ospite di festival, concerti, convegni e manifestazioni, testimone di un cambiamento che continua ad aver bisogno di sostegno per dirsi concluso. Un destriero azzurro ancora capace di sconvolgere le fredde geometrie del pregiudizio che ha rischiato di essere sfrattato dal deposito comunale di Muggia (Trieste), dove riposa dopo ogni viaggio e viene sottoposto a manutenzione.
In tanti si sono offerti di ospitarlo, perché Marco Cavallo è amato da grandi e piccini, tanto basta per non scoraggiare quanti si impegnano per portare avanti la sua incredibile storia. Si dice che per il mondo siano diciotto i Marco Cavallo, emuli dell’originale italiano. Sono stati costruiti in Brasile, Argentina, Russia, Turchia, altri in differenti materiali e dimensioni si trovano in Italia, uno è stato assemblato con bottigliette di plastica raccolte sulle sponde del Ticino e inaugurato a Pavia nel corso di un evento dedicato a Giuliano Scabia.

Alcuni si chiederanno se dopo tanti anni ha ancora senso portarlo in tour. Il senso della sua presenza si coglie nelle tragedie di alcuni reparti dove le persone continuano ad essere abbandonate in “strutture residenziali” che contengono e non accolgono, nello smantellamento dei Centri di Salute Mentale per ragioni di budget, nell’impiego irrazionale dei farmaci, nella solitudine e nell’abbandono dei malati e delle loro famiglie.
Alcuni bisogni rimangono troppo spesso inavvertiti e annientati, Marco Cavallo non si stanca di ricordarci che cambiare lo status quo è possibile.

Il presente approfondimento è già apparso in “InVisibili”, blog del «Corriere della Sera.it» (con il titolo “La scultura Marco Cavallo, 50 anni dopo: la lotta contro i pregiudizi è ancora viva, come il suo azzurro”). Viene qui ripreso, con minimi riadattamenti al diverso contenitore, per gentile concessione.

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