Lo sport è un diritto di tutti, al di là di ogni stigma, oltre le discriminazioni

Lo aveva stabilito il Tribunale di Biella, ora lo ha confermato la Corte d’Appello di Torino: la FCI (Federazione Ciclistica Italiana) si è resa protagonista di discriminazione nei confronti di colui che all’epoca dei fatti era un minore con disabilità intellettiva/relazionale, non consentendogli di praticare sport a livello agonistico insieme agli altri atleti, nonostante fior di certificati di idoneità. Sono pronunciamenti giuridici, questi, che oltre a meritare la maggior diffusione possibile, sono certamente destinati a rafforzare le fondamenta di una nuova cultura sulla disabilità

Mano del Giudice che batte il martellettoCi sono pronunciamenti giudiziari, avevamo scritto all’inizio dello scorso anno, destinati ad aprire strade nuove e tale era sembrata l’Ordinanza pronunciata dal Tribunale Civile di Biella (disponibile a questo link) che, occupandosi di una questione decisamente particolare, aveva riconosciuto, ai sensi della Legge 67/06 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), una discriminazione compiuta dalla FCI (Federazione Ciclistica Italiana) ai danni di colui che all’epoca dei fatti era un minore con disabilità intellettiva/relazionale, oggi maggiorenne.
«La vicenda era nata nel 2019 – aveva raccontato l’avvocato Massimo Rolla, patrocinante la causa civile intentata dal giovane – quando la persona, appassionata di ciclismo fuoristrada e che negli anni precedenti aveva partecipato a varie gare sportive nell’àmbito di Intellectual Disability, categoria che prevede la presenza di un accompagnatore e una partenza differenziata rispetto agli altri concorrenti, si era accorto, assieme ai genitori e alla società sportiva per la quale era tesserato, di essere del tutto in grado di partecipare autonomamente con i coetanei e senza la necessità di un accompagnatore, non essendo un pericolo né per se stesso, né per gli altri ciclisti. Preso dunque atto della volontà del giovane e con il benestare della sua famiglia, la società sportiva aveva iniziato a informarsi su cosa fosse necessario, per esaudire il desiderio di Andrea. Controllate dunque tutte le formalità per i tesseramenti agonistici, il giovane era stato sottoposto a visita clinica da parte dell’Istituto di Medicina dello Sport di Torino-Federazione Medico Sportiva Italiana, che a seguito di ogni necessario accertamento, gli aveva rilasciato un certificato di idoneità all’attività sportivo agonistica, specificando che “egli non presentava controindicazioni in atto alla pratica agonistica del ciclismo”. A quel punto la società sportiva aveva provveduto a richiederne il tesseramento come Junior Sport e non più come Intellectual Disability e ad inviare la pratica alla Federazione Ciclistica Italia la quale aveva dapprima accettato il tesseramento, salvo poi comunicare alla società sportiva l’annullamento dello stesso, con richiesta immediata di visione del certificato medico, prontamente ricevuto».

Questa la vicenda, che dopo i tentativi di conciliazione, non andati a buon fine, aveva quindi portato al pronunciamento del Tribunale di Biella il quale, accogliendo pienamente le istanze del giovane, aveva ordinato alla Federazione Ciclistica Italiana «la cessazione del comportamento discriminatorio, mediante rimozione degli ostacoli che impediscono al giovane di praticare lo sport a livello agonistico».
Al tempo stesso avevamo ritenuto come molto probabile l’arrivo di un ricorso in appello da parte della Federazione Ciclistica Italiana, anche con possibili esiti diversi. E invece…
Invece nei giorni scorsi la Terza Sezione Civile della Corte d’Appello di Torino ha respinto l’appello, con una Sentenza (disponibile a questo link), che ha pienamente confermato la discriminazione nei confronti del giovane, adottando in toto l’impostazione difensiva dell’avvocato Rolla, ma corroborandola ulteriormente di solidi dati giuridici, per ritenere del tutto corretto il pronunciamento del Tribunale di Biella, sia dal punto di vista generale dell’impostazione, sia da quello più strettamente giuridico.

«Il diritto allo sport – commenta Massimo Rolla – deve essere un diritto per tutti e non solo sulla carta: è la strada ancora lunga, ma chiaramente tracciata da questi due pronunciamenti. In sostanza, se la Federazione Ciclistica mi richiede la sussistenza di determinati requisiti per gareggiare e io dimostro che ne sono in possesso, con la documentazione che lo attesta, perché mi dev’essere negato questo diritto? In tre parole: questa è discriminazione e la Sentenza della Corte d’Appello di Torino analizza in maniera lucida ciò che la Federazione Ciclistica ha posto in essere con il proprio comportamento».

Vi è un altro aspetto significativo su cui si sofferma Rolla, vale a dire la terminologia utilizzata dalla Federazione Ciclistica nel ricorrere in appello, fatta di parole volte a identificare lo stigma con cui la disabilità è stata storicamente indentificata. «Utilizzare parole come “affetto da disabilità” – sottolinea infatti il legale -, “portatore di handicap”, “diversamente abile”, tutte frasi e terminologie adottate in ogni scritto da parte della Federazione Ciclistica Italiana, e fortunatamente superate oggi anche a livello di norme, pensando al recente Decreto Legislativo 62/24, denota un grave arretramento culturale. Chi si occupa di persone con disabilità, infatti, sa bene che quest’ultima non è una malattia (“affetto da”), ma una condizione sociale e cerca di far capire a persone ed enti – nella fattispecie alla Federazione Ciclistica Italiana, perché altre Federazioni, invece, conoscono bene la differenza, come ampiamente dimostrato in varie occasioni – che la persona non va incasellata solo perché con disabilità, ma va valutata nel contesto sociale e in base alle sue capacità».

«È in atto un cambiamento in ogni àmbito – conclude Rolla -, sociale, sanitario, giuridico e sportivo e in tale ultimo settore, duole dirlo, l’unica Federazione ancora legata a vecchi stereotipi è la Federazione Ciclistica Italiana. Fermo restando che questi non sono “proclami”, ma diritti per cui il sottoscritto si batte e non smetterà mai di battersi, diritti ancorati a solide norme giuridiche».

Anche questo pronunciamento della Corte d’Appello di Torino, dunque, oltre ad essere degno della maggiore diffusione possibile, appare destinato a rafforzare le fondamenta di una nuova cultura sulla disabilità. (S.B.)

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