Ho “inaugurato” la direzione responsabile di Superando con una bronchite ostinata, di quelle che tolgono il respiro. Letteralmente. Per chi come me ha una patologia che indebolisce i muscoli, compresi quelli respiratori, un banale malanno di stagione diventa pericoloso perché la tosse è inefficace ed è impossibile espellere quanto si forma nei polmoni e nei bronchi che si riempiono fino all’intasamento.
Se sono qui a scrivere, se sono riuscita a superare i momenti peggiori dei giorni scorsi a casa mia, seppur con grande fatica, ma senza ricorrere alle cure ospedaliere, lo devo a due apparecchi: il ventilatore meccanico e la cosiddetta “macchina della tosse”.
Del primo mi sono già occupata qualche mese fa su queste stesse pagine. Così come lo conosciamo, facile da trasportare e con batteria incorporata, è stato pensato da un uomo con disabilità, Robin Cavendish, che negli Anni Sessanta era destinato ad una vita ricoverato, attaccato ad una apparecchiatura per respirare dopo aver contratto la poliomielite. Migliaia di persone hanno vissuto anni nei polmoni d’acciaio prima che arrivasse Robin Cavendish. La sua tenacia e quella della moglie, unita ad un’inventiva non comune, lo portò ad ideare la ventilazione meccanica domiciliare, grazie alla quale oggi migliaia di persone nel mondo possono condurre un’esistenza piena e dignitosa, anche con una grave insufficienza respiratoria.
E pensando a lui mi vengono in mente due amici, entrambi si chiamavano Simone, che vivevano con il ventilatore dietro la sedia a rotelle, ventiquattr’ore al giorno, e con quello viaggiavano; grazie a quello per molti anni hanno potuto sentirsi parte del mondo.
Della “macchina della tosse” si sa meno, a parte il fatto che è stata sul mercato dal 1952 al 1967, né risulta chi l’abbia inventata. È scomparsa per un po’, finché un medico americano specializzato in patologie neuromuscolari, il dottor John Bach dell’Ospedale Universitario statunitense di Newark (New Jersey), non l’ha riscoperta, riconoscendone le potenzialità nella prevenzione di polmoniti, problemi respiratori e per permettere di non avere continue ospedalizzazioni.
È così tornata in uso, dopo l’approvazione nel febbraio del 1993 da parte dell’FDA [Food and Drug Administration, l’ente governativo statunitense che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici, N.d.R.]. Prima negli Stati Uniti, poi in altri Paesi tra cui l’Italia, anche se da noi per diverso tempo è stata vista con scetticismo. Molti, anche professionisti del settore, non ne comprendevano fino in fondo l’importanza, il Servizio Sanitario Nazionale non ne prevedeva l’erogazione, se non in seguito a importanti episodi di insufficienza respiratoria che richiedevano un ricovero in terapia intensiva.
La mentalità e la sensibilità fortunatamente sono cambiate, in tempi recenti non ho più sentito di persone che abbiano avuto difficoltà ad ottenere questo presidio medico salvavita.
Ma perché sto raccontando tutto questo? Semplice, perché negli ultimi giorni l’utilizzo di tali apparecchiature mi ha fatto riflettere sull’importanza della ricerca clinica, che non è soltanto l’ultima fase nello sviluppo di farmaci, per intenderci la fase della sperimentazione sull’uomo, ma anche quel ramo della ricerca che si occupa di trovare nuovi metodi diagnostici e dispositivi medici, per garantire una migliore assistenza ai pazienti. Strumenti per migliorare la qualità della vita in presenza di patologie per le quali la ricerca di laboratorio richiede decenni di studi, mentre la quotidianità ha bisogno di risposte più rapide e non sempre può permettersi di attendere la medicina “risolutrice”.
Sorella “minore” delle più blasonate e conosciute ricerche farmacologiche e genetiche, quella clinica non è affatto meno importante, anzi. Nel 1994 anche Telethon, la nota maratona televisiva per la raccolta fondi da destinare alla ricerca scientifica, volle al proprio interno un settore dedicato al miglioramento della qualità della vita. Si chiamava Tecnothon, era il Laboratorio di ricerca Tecnologica della Fondazione Telethon, che negli anni ha progettato e realizzato prototipi di ausili e oggetti per agevolare le azioni quotidiane di persone con disabilità e anziani, come girarsi nel letto, infilare una giacca, mettersi in piedi.
Chi non può girarsi nel letto in autonomia a causa di una malattia genetica, per fare un esempio, ha necessità qui e ora di compiere questo movimento, non può aspettare la terapia farmacologica.
Intendiamoci, non sto demonizzando la ricerca scientifica di laboratorio, io stessa assumo un farmaco frutto del lavoro di anni di studi, però mi piacerebbe che tutti i tipi di ricerca avessero la giusta attenzione, che non ve ne fosse una considerata meno di valore delle altre, soltanto perché non entra nelle nostre cellule per “ripararle”.
All’inizio di questo articolo ho portato l’esempio di due apparecchi utilizzati dalle persone con patologie simili alla mia che coinvolgono la respirazione, penso che altre condizioni abbiano altri strumenti per gestire le problematiche che derivano dalle diverse malattie. Strumenti nati dall’esperienza personale, vedi Robin Cavendish, dal lavoro in corsia, leggi la “macchina della tosse”, dalla professionalità di tecnici e ingegneri sconosciuti che traducono in ausili le idee per rispondere a bisogni concreti.
“Meriterebbero il Nobel”, ho intitolato questo pezzo, e lo penso davvero. Ci vorrebbe un premio internazionale per questo tipo di ricerca, sarebbe anche un modo per far conoscere queste invenzioni e raccogliere fondi per progettarne altre.
Direttrice responsabile di «Superando.it».
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