“Tukiki”, ossia “Sorridi” e dai un calcio agli stereotipi sulla disabilità

di Simone Fanti*
La parola “Tukiki” nella lingua del Madagascar significa “sorridi” e quel sorriso si ritrova tra i calciatori con disabilità cognitive, intellettive e relazionali che frequentano nel capoluogo lombardo il Centro Sportivo Minerva Milano, partecipando al progetto denominato “Tukiki: diamo insieme un calcio alla disabilità”, nel quadro di tante altre iniziative sociali
Progetto "Tukiki: diamo insieme un calcio alla disabilità"
Un gruppo di partecipanti al progetto “Tukiki: diamo insieme un calcio alla disabilità”

«Tukiki, in lingua malgascia significa “sorridi”», racconta Federica Cappella una delle due fondatrici (l’altra è Camilla Meroni) del progetto Tukiki: diamo insieme un calcio alla disabilità. «L’ho imparato recandomi per un mese in Madagascar per volontariato. Quello che mi è rimasto di quei bambini è proprio il sorriso, la gioia di vivere pur non avendo materialmente nulla».
E quel sorriso si ritrova tra i calciatori con disabilità cognitive, intellettive e relazionali che frequentano il Centro Sportivo Minerva Milano in Via Treviglio a Cimiano (Milano). Ma andiamo con ordine e facciamoci raccontare da Francesca Babusci la genesi del progetto.
«Tutto nasce da una squadra di calcio femminile apolide: non avevamo una sede, ma volevamo creare una scuola femminile per sostenere il movimento a favore di tutte le atlete. La prima squadra è nata nel 2013 dapprima presso la sede del Metanopoli calcio (a San Donato Milanese), poi si è spostata presso l’Ausonia che si trova in zona Ortomercato di Milano. Solo nel 2015 siamo riuscite a strutturarci per sviluppare tutto il settore femminile, formando più squadre in base all’età (dai 6 sino a circa 40 anni) e a trovare casa al Centro Sportivo Dindelli».

Con quali risultati?
«Fino all’anno scorso avevamo la prima squadra che faceva il Campionato d’Eccellenza, poi quest’anno non siamo più riuscite a farla per questioni economiche, gli sponsor preferiscono il settore maschile».

Giusto per parlare di stereotipi… ma che interventi servirebbero?
«Io non mi occupo della ricerca sponsor, però tutte le volte che mi sono trovata a scambiare delle opinioni con possibili aziende ricevevo la solita risposta: “Tutto bello quello che fate però…”. In questo momento dovremmo investire in interventi strutturali al centro dove ci alleniamo e ampliare l’organico per aumentare sempre di più la qualità del servizio offerto a tutta la comunità».

Ma quante persone coinvolge il vostro centro?
«Circa 200 tesserati e tesserate, ma sono sempre pochi agli occhi degli sponsor e comunque non abbiamo una storicità delle grandi società maschili».

E quando avete pensato di includere le persone con disabilità?
«Fin dal 2015. In nove anni, con il progetto Tukiki, abbiamo raccolto una cinquantina di atleti/e. E posso assicurare che non è stato facile all’inizio guadagnarsi la fiducia, ma ora l’ottimo passaparola delle famiglie è diventata la nostra spinta principale».

Lavorate con Special Olympics [il movimento di sport praticato da persone con disabilità intellettive, N.d.R.]?
«Sono stati tra i primi che abbiamo conosciuto. Ma da qualche anno è nata anche una divisione della FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio). I primi consentono squadre miste con ragazzi con e senza disabilità, la seconda no, è riservato esclusivamente a ragazzi/e con disabilità cognitiva».

Ma qual è l’obiettivo?
«Vivere una competizione bella da vedere, far emozionare il più possibile i giocatori».

Ci sono differenze nell’allenare persone con e senza disabilità?
«Sicuramente ci sono delle differenze, infatti è importante avere sia degli istruttori sia degli educatori. Noi poi ci avvaliamo di una psicologa dello sport e di volontari. Un team corposo di persone che danno supporto».

So che avete un altro termine africano che racconta il vostro modo di operare.
«Sì, Ubuntu, che indica la “benevolenza verso il prossimo”. Parlando dell’Ubuntu si è soliti dire Umuntu ngumuntu ngabantu, “io sono ciò che sono in virtù di ciò che tutti siamo”».

Tornando al Centro, quali interventi servirebbero?
«Il Centro è stato dato in concessione grazie a un bando del Comune di Milano vinto grazie ai nostri programmi sociali e a un progetto di riqualificazione. Lo avevamo presentato nel 2018, parliamo degli anni pre-Covid, con dei costi dei lavori diversi da quelli attuali. Dopo il Covid i costi sono raddoppiati, la cifra è diventata spropositata. Così l’estate dello scorso anno abbiamo cercato di dialogare con il Comune per capire come procedere. Ci hanno giustamente tolto la vecchia autorizzazione dei lavori perché ormai erano passati degli anni e ci hanno chiesto di presentare un nuovo progetto. Così abbiamo fatto e ora siamo in attesa di risposte…».

Eppure il vostro Centro ha un grande impatto sociale. Accanto al mondo femminile e a quello della disabilità vi occupate anche di altri temi sociali…
«Sì, attraverso un’operazione di rete abbiamo creato un nuovo team – I Velieri del Sorriso – composto da alcuni nostri atleti e atlete del progetto Tukiki e ragazzi/e provenienti dall’Associazione Carrobiolo di Monza che si occupa di contrastare il disagio giovanile attraverso la lotta alla dispersione scolastica, l’accoglienza delle famiglie, il sostegno e l’attività educativa per i ragazzi. E poi dall’anno scorso ospitiamo anche altre realtà che, come noi, hanno sempre avuto difficoltà a trovare un luogo sicuro; tra queste c’è la Società Open Milano Calcio che promuove il gioco del calcio contro le discriminazioni di identità di genere e di orientamento sessuale. Abbiamo inoltre l’onore di essere state scelte come quartiere generale dell’Impresa Sociale Whanau che si muove su tutto il territorio e si occupa del benessere della persona. Offrono servizi di osteopatia, psicologia, di coach nutrizionale affinché ragazzi e ragazze diventino “atleti della propria vita” attraverso una squadra di comunità. Poi ospitiamo la Nazionale Solidale di Calcio – realtà che si occupa della preparazione e selezione della squadra italiana che partecipa ogni anno al torneo mondiale Homeless World Cup. Per noi il calcio è uno strumento, oltre a fare attività sportiva, infatti, creiamo tantissime occasioni per fare anche altro».

Il presente servizio è già apparso in “La forza dei fragili”, blog di «Oggi», con il titolo “Tukiki, il sorriso che dà un calcio agli stereotipi”. Viene qui ripreso, con diverso titolo e minimi riadattamenti dovuti al differente contenitore, per gentile concessione.

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