Può delinearmi a grandi linee la situazione presente che caratterizza il nostro Paese rispetto all’attuazione dei Piani di Zona?
Il quadro nazionale è, come dire, il solito che si può immaginare: abbiamo il Centro-Nord Italia che, almeno nella forma, ha realizzato i Piani di Zona; di contro il Sud spesso non ha neanche recepito le norme necessarie per poter partire con i Piani di Zona.
Cosa intendo dire? Che i Piani di Zona hanno inevitabilmente una dimensione territoriale la quale, nel caso dei grandi Comuni, è rappresentata dalle cosiddette “porzioni comprese” (circoscrizioni, municipi). Nel caso invece dei piccoli Comuni, sono le “aggregazioni” a fare testo (ad esempio i consorzi di Comuni).
In larga parte del Sud questo non è avvenuto. Non c’e stato l’elemento infrastrutturale per poter realizzare questa operazione; non sono stati definiti i distretti sanitari necessari a tracciare i confini entro i quali raccogliere municipi, comuni o consorzi di comuni. Di conseguenza, in larga misura, la Legge 328/2000 [che regola la predisposizione dei Piani di Zona, N.d.R.] rimane inapplicata e inapplicabile.
Ma è proprio così determinante, a suo parere, il fattore infrastrutturale?
Sicuramente. L’assenza infrastrutturale spesso significa totale assenza nei Comuni più piccoli, ma anche medi, della capacità di saper cogliere una fondamentale esigenza sociale, una delega sociale operata dalla Stato nei confronti del Comune. Non è che manchi l’assessorato ad hoc, manca un operatore sociale.
In molti comuni del Sud Italia, ancor oggi esiste, com’è ovvio, la competenza sull’anagrafe, sulle strade e vari altri settori, ma non esiste la competenza sociale. Questo è il grosso problema.
Per indicare una situazione paradossale, si pensi alla Sardegna, dove l’attuale assessore ai Servizi Sociali ha dovuto constatare che non era attuato nemmeno il DPR 502/1992 del ministro De Lorenzo! Quindi si era ancora alla Legge 833 del 1978, con le USL e così via. Figuriamoci se poteva essere pensabile il passaggio ulteriore al consorziamento dei Comuni, per dar vita al distretto che fa le politiche attive attraverso i Piani sulla Salute o i Piani di Zona.
Si tratta di un ritardo letteralmente pazzesco. In Sicilia – dove non è applicata la Legge 328, come il Decreto Legislativo 229/1999 e dove è scarsamente applicato il DPR 502/1992 – ho potuto annotare qualcosa che mi ha molto sorpreso: sulla base di una serie di conti, risulta infatti che i Comuni spendono sul sociale, in linea teorica, somme notevoli, inserendo nel budget regionale tutta una serie di voci che sono assolutamente fuori dai servizi sociali. Ad esempio l’eliminazione delle barriere architettoniche, il personale dell’Ufficio Tecnico del Comune che delle barriere si occupa, il costo di tale personale, che poi è il medesimo che lavora sul piano regolatore, sulle licenze edilizie, in sostanza sui lavori pubblici.
Il primo problema che abbiamo in Italia è sapere in realtà cosa si spende e in che direzione. La più grande contraddizione cui abbiamo assistito nei cinque anni del Governo Berlusconi (oltre all’assenza totale di pianificazione nazionale) è stata proprio la mancanza di una ricognizione per capire quanto si spendesse e come si spendesse a livello comunale, nonostante l’impegno dell’Istat e di altre agenzie di espressione statale o delle autonomie locali.
Per capire, il Decreto Legislativo 130 del 2000 divide in due parti i servizi sociali: “servizi di base” e servizi “aggiuntivi”. Se uno andasse a verificare come tale norma abbia trovato applicazione nei diversi Comuni italiani, scoprirebbe che non vi è alcuna chiarezza su cosa debbano essere esattamente i “servizi di base” o quelli “aggiuntivi”. L’assistenza domiciliare ad una persona con disabilità è un servizio di base oppure aggiuntivo?
Se non facciamo chiarezza, non sapremo mai bene quanto si spende e chi spende, se la famiglia, la persona, oppure le USL.
Lei descrive un preoccupante ritardo. Non ci sono eccezioni?
No, questa situazione riguarda tutto il nostro Paese. Parliamo ad esempio della Lombardia. Nemmeno lì è applicata la Legge 229/1999 – e quindi neppure la 328/2000 – per cui i Comuni sono privati del loro compito fondamentale di partecipare alla definizione dei servizi sociali con risorse proprie o con quelle del Fondo per le Politiche Sociali o tramite il controllo dei bilanci dei distretti. I finanziamenti che vanno a coprire i servizi sociali o di natura sociosanitaria provengono fondamentalmente dal Fondo Sanitario Nazionale, con destinazione verso i distretti.
A questo punto, se uno non ha costruito il distretto, se non si è fatta una legge per cui quest’ultimo esiste, il Comune non ha la possibilità di entrare nel merito del bilancio del distretto. Sono perciò le ASL ad autogestirsi i fondi per le politiche sociali, con i Comuni letteralmente “scippati” della possibilità di fare qualsiasi cosa. È una questione prettamente politica, non certo una questione banale.
Allora, cosa succede? Il Comune di Milano, per una persona come me, tetraplegica, eroga, per delibera, un massimo di due ore di assistenza al giorno. Ciò significa scendere dal letto e uscire di casa e quello che succede fuori di casa lo sa solo Dio! Al contrario, il Comune di Roma eroga assistenza ventiquattr’ore su ventiquattro, 2.500 euro al mese che uno spende come vuole nell’assistenza.
Il risultato di questa faccenda è solo uno: non c’è un impegno serio e significativo sui servizi sociali. Tutto si concentra nei luoghi istituzionali: centri diurni, centri di riabilitazione.
A Milano c’e l’Istituto Sacra Famiglia che ospita centinaia di persone con disabilità: quindi non stiamo parlando solo del Sud, ma anche del cosiddetto “profondo Nord”!
E in ogni caso la drammaticità di tutto questo sta nel fatto che finora si è considerato che i Livelli Essenziali di Assistenza non fossero esigibili: tanto quanto i progetti individuali per le persone disabili di cui all’articolo 14 della Legge 328, tanto quanto i Piani di Zona.
In Lombardia i Piani di Zona sono stati fatti, ma da chi? Non dai Comuni perché non hanno le risorse. Di conseguenza i Piani di Zona integrano piano sociale e sanitario, comprendendo i centri diurni o i centri abitativi esistenti sul territorio, e tutto ciò che è prestazione domiciliare di tipo sociale viene cancellato perché le risorse sono destinate altrove.
Cosa pensa del metodo della coprogettazione concertata? Ritiene che sia utile?
In sé la coprogettazione è un’innovazione normativa introdotta dalla Legge 328/2000 (articolo 19, comma 2, punto a), volta a «responsabilizzare i cittadini nella programmazione e nella verifica dei servizi».
Invece la concertazione è dei soggetti accreditati che erogano le prestazioni, a condizione che partecipino anche con proprie risorse alla realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali previsto nei Piani di Zona.
I “poteri forti” non sono certo le organizzazioni della cittadinanza che regolarmente vengono messe in minoranza da ogni altra forma rappresentativa: mi riferisco, sostanzialmente, agli istituti religiosi, a quelli del profit e del non profit, che assorbono grandi quantità di risorse. E questo, per inciso, non accade solo a Milano, ma più o meno dappertutto.
In assenza di una vera negoziazione fra Comuni e distretti sociosanitari (il cui bilancio dipende – è controfirmato – dai Comuni), il potere di chi dovrebbe avere la massima responsabilità rispetto ai servizi sociali viene meno. Questo è un fatto che deve preoccupare.
I Comuni e le ASL, in alcuni territori, nel momento in cui sono riusciti a ricostruire una via negoziale hanno pensato di non utilizzare più il Terzo Settore – variamente detto – e puntano sulla costituzione di municipalizzate. Per cui la coprogettazione, da questo punto di vista, si gioca tra il soggetto istituzionale “Comune”, il soggetto istituzionale “ASL” e la municipalizzata. Gli altri vengono tutti tagliati fuori. È una sorta di “nazionalizzazione” dei servizi sociali.
Questo a noi, come utenti, non porta grossi cambiamenti: infatti, che il servizio sia erogato da una cooperativa sociale anziché da una municipalizzata, non cambia radicalmente la situazione. Quello che ci interessa è però il diritto di scelta della persona, su ciò che lo riguarda. Qui sta il vero nocciolo della questione: Piani di Zona e programmazione sono scelte che fanno la differenza.
Quando le nostre associazioni sono riuscite a partecipare ai Piani di Zona, con la definizione del quadro che interessa le persone con disabilità (a partire da quelle intellettive e relazionali), noi siamo entrati in collisione con tutti, perché non rappresentiamo né un potere politico né un potere economico e la negoziazione, invece, finisce col riguardare solo questi due poteri.
Noi spesso siamo rimasti schiacciati in un ambito indefinito, quel Terzo Settore che partecipa alla negoziazione, ma che – fondamentalmente a livello locale – non riconosce quasi mai il ruolo delle associazioni. C’è un problema di chi rappresenta cosa all’interno del Terzo Settore. Nei Piani di Zona, quando non ci sono state le municipalizzate, a rappresentare i bisogni delle persone con disabilità sono le cooperative o l’erogatore dei servizi.
Lei, Barbieri, non si rifugia in giudizi di comodo. Nella sua dura analisi, quale ruolo pensa che stia svolgendo nella stesura e nella realizzazione dei Piani di Zona quel mondo delle associazioni che la FISH in alta percentuale rappresenta?
Bisogna dire che alcune delle nostre associazioni hanno partecipato ai Piani di Zona fondamentalmente per presentare il loro “progettino di settore” e farlo finanziare. Ma è chiaro che quanto maggiore sarà la sensazione che la coprogettazione sia fondamentalmente una spartizione economica delle risorse a disposizione, tanto più le associazioni – anche le nostre – avranno quel genere di tentazioni…
Il pericolo è che non contino più i diritti. Viene meno un cambiamento reale, oggettivo nella negoziazione. Se la Legge 328 ha un certo significato, quello cioè di riportare l’accento sulle persone, sui loro percorsi di vita, trascinandole fuori da un ambito esclusivamente sanitario, forse dobbiamo dirlo che la 328 finora non ha dato i risultati sperati.
Dove funziona, se funziona, la Legge 328 e perché? C’è un Comune o una Provincia ove si può parlare di una dignitosa applicazione?
Posso parlare della Provincia di Terni, ovvero di “Agenda 22”, un progetto di partecipazione europea. Il punto fondamentale è che, attraverso la sperimentazione di tale iniziativa si sono ovviamente rimescolate le carte, i ruoli sono stati ridefiniti e le stesse associazioni hanno dovuto reinventarsi. Infatti, “Agenda 22” ha riproposto, in quel territorio, il tema della partecipazione, spingendo al rinnovamento le istituzioni, le cooperative, il Terzo Settore e i centri del volontariato.
Terni, fino a che l’Assessorato del Comune non ha posto al centro i bisogni delle persone con disabilità, era un territorio in cui il lavoro dell’Assessorato stesso era di portata assai limitata: nessuna progettualità, pochissimi dipendenti, quasi del tutto marginale.
Il progetto europeo ha consolidato una nuova credibilità, tanto da rendere quell’Assessorato quasi un modello. Si sono rimessi in moto i meccanismi vitali di una partecipazione onesta e leale, nell’ambito della quale ci si confronta con le diverse entità, senza nascondere le varie difficoltà del caso. Si è ricominciato a dialogare, a dire, parlando di disabilità, che l’obiettivo dev’essere quello della restituzione della piena dignità alla vita delle persone: non importa se disabili, tossicodipendenti o anziani.
E questo discorso deve valere per tutte le fasce considerate svantaggiate: è un dato politico importante. Con “Agenda 22” abbiamo svolto un lavoro straordinario in quel territorio. Si tratta di un modello di partecipazione che recupera una parte di quello che fu fatto alla fine degli anni Settanta-Ottanta in territori come l’Emilia Romagna e la Toscana e che oggi è andato drammaticamente perduto, perché i Piani di Zona in Emilia Romagna o in Toscana sono elaborati dai funzionari.
In quale battaglia si sente impegnato?
Le nostre associazioni, a livello locale, spesso preferiscono scendere sul terreno del Terzo Settore piuttosto che condurre la battaglia per i diritti. Per questo stiamo cercando di risvegliare le associazioni sul territorio, perché ne hanno un bisogno quasi disperato. L’idea della coprogettazione – e quello che può significare per le persone con disabilità e i loro familiari – non è ancora patrimonio della grande massa dei cittadini.
All’interno di questo discorso c’è poi un’altra importante questione: i centri diurni, nella teorizzazione che li ha generati, hanno uno scopo non caratterizzato dalla permanenza, ma dal tentativo di recuperare tutte le abilità possibili, restituendo le persone al contesto sociale. Invece, nella maggior parte d’Italia, queste strutture fanno solo opera di assistenza permanente. Manca l’elemento sociale, manca l’assistenza sul territorio. Non ci sono risorse.
Un altro elemento che mi ha realmente sconvolto è che girando l’Italia mi sono trovato di fronte a persone dimesse dal servizio di assistenza domiciliare o dal centro diurno.
Nella Regione Lazio, ad esempio, abbiamo bisogno di avere prestazioni vicine alle necessità delle persone e meno orientate a tutelare l’opera dei professionisti della sanità. Necessita un salto di qualità che trasformi l’intero sistema della riabilitazione, oggi fondato su bisogni indotti e non su quelli reali. Tutti gli operatori sociosanitari, inoltre, si devono orientare verso altre necessità – come la terapia occupazionale – verso l’operatore di comunità e la riabilitazione intesa in senso autentico, non come forma assistenziale.
Il piano socio-assistenziale non è in grado di integrarsi con l’ambito sanitario perché sovrapponibile e perché i suoi costi sono spropositati rispetto al contenuto professionale. Bisogna dunque restituire alla riabilitazione la sua funzione autentica, rilanciare l’impegno del Fondo Sanitario per gli aspetti socio-educativi e riposizionare i servizi sociali sul terreno del diritto di scelta della persona e della famiglia.
Questa è la speranza che noi abbiamo. Non significa pensare a chiudere ciò che esiste, ma piuttosto ad orientarlo verso prestazioni diverse. Per cui se una prestazione oggi compete al fisiatra, domani potrà riguardare il terapista occupazionale.
*Per gentile concessione del FOAI (Federazione degli Organismi per l’Assistenza alle Persone Disabili).
Il Piano di Zona è l’occasione offerta alle comunità locali per leggere, valutare, programmare e guidare il proprio sviluppo e va visto e realizzato come piano regolatore del funzionamento dei servizi alle persone.
In particolare, il Piano di Zona è lo strumento promosso dai diversi soggetti istituzionali e comunitari per:
– analizzare i bisogni e i problemi della popolazione sotto il profilo qualitativo e quantitativo;
– riconoscere e mobilitare le risorse professionali, personali, strutturali, economiche pubbliche, private (profit e non profit) e del volontariato;
– definire obiettivi e priorità, nel triennio di durata del Piano attorno a cui finalizzare le risorse;
– individuare le unità d’offerta e le forme organizzative congrue, nel rispetto dei vincoli normativi e delle specificità e caratteristiche proprie delle singole comunità locali;
– stabilire forme e modalità gestionali atte a garantire approcci integrati e interventi connotati in termini di efficacia, efficienza ed economicità;
– prevedere sistemi, modalità, responsabilità e tempi per la verifica e la valutazione dei programmi e dei servizi.
I Piani di Zona devono dare priorità agli anziani, alle persone con disabilità e all’età evolutiva. La famiglia, verso la quale si sono sviluppate aspettative notevoli e alla quale sono state spesso delegate funzioni gravose, dev’essere soggetto attivo e destinatario delle politiche sociali locali, contribuendo a realizzare gli inderogabili doveri di solidarietà nello specifico contesto e con le modalità tipiche dei rapporti familiari.
In tal senso, gli eventuali contributi economici a favore di nuclei familiari in difficoltà, erogati dall’Ente gestore locale, devono essere motivati nel quadro di progetti individualizzati di aiuto e sostegno alla persona e alla sua famiglia.
La predisposizione del Piano di Zona comporta tre fasi di lavoro:
– una prima, propedeutica, di analisi dei problemi e dei bisogni, di lettura delle risorse, di individuazione dei soggetti che, a diverso titolo, sono interessati a questa programmazione;
– una seconda, in cui vengono messi a punto i contenuti del Piano e si procede alla sua approvazione e alla stipula dell’accordo di programma ove necessario;
– una terza, in cui si avvia e sperimenta la sua gestione unitaria e integrata (anche con soggetti comunitari), all’interno degli ambiti per la gestione dei servizi sociali.
La Giunta Regionale, entro un certo periodo di tempo (sei mesi), fornisce orientamenti per il lavoro del programmatore locale, nella fase conoscitiva e in quella di predisposizione del Piano di Zona, con linee guida per l’ente gestore in funzione del monitoraggio (Osservatorio Permanente a livello di Distretto Sociosanitario) e della valutazione dei risultati conseguiti.
I Sindaci, da soli, ovvero riuniti nella Conferenza dei Sindaci negli ambiti pluricomunali, sono i soggetti che promuovono e curano la predisposizione del Piano di Zona.
Essi coinvolgono, nelle diverse fasi e nel rispetto delle specifiche competenze di ognuno, tutte le istituzioni pubbliche, quelle private, le famiglie e tutti i soggetti della solidarietà organizzata presenti nell’ambito territoriale e disponibili a collaborare, così come in realtà stabilisce la nuova Legge quadro sui servizi sociali (328/2000).
(Materiale curato da Rolando A. Borzetti e tratto dal sito Educazione&Scuola).