Vorrei cercare con questo intervento di esplicitare il punto di vista delle persone con disabilità e delle loro famiglie sul significato che hanno per noi le parole appropriatezza e accettabilità, tentando in particolare di riflettere e far riflettere sulle relazioni che intercorrono tra l’atto riabilitativo, la persona oggetto di questo atto e la sua famiglia.
Riflettere, del resto, significa anche riconoscere queste relazioni come bisogni e domande all’organizzazione terapeutico-riabilitativa alle quali non si può non rispondere.
Innanzitutto bisogna sgombrare il campo da possibili equivoci e definire con chiarezza i termini stessi di appropriatezza e accettabilità.
Usando una frase tanto semplice quanto “ingombrante” di don Luigi Monza – fondatore dell’Associazione La Nostra Famiglia – potrei dire solamente che appropriatezza e accettabilità significano che il bene dev’essere fatto bene. Ma tenterò di entrare un po’ più nel “tecnico”, per parlare di:
– Equità nell’accesso alle prestazioni e ai servizi.
– Qualità delle cure.
– Appropriatezza rispetto alle specifiche esigenze.
– Economicità nell’impiego delle risorse.
Gli ulteriori significati potrebbero essere ad esempio:
– La disponibilità (quantità sufficienti).
– L’accessibilità, da considerare in quattro diverse dimensioni che si sovrappongono: la non discriminazione (i beni, i servizi e le facilitazioni sanitarie devono essere accessibili a tutti, specialmente ai settori più vulnerabili ed emarginati della popolazione, in base al diritto o di fatto, senza discriminazioni basate su ogni fattore per cui ciò è vietato); l’accessibilità fisica; l’accessibilità economica; l’accessibilità alle informazioni.
– L’accettabilità intesa come rispetto dell’etica.
– La qualità intesa come appropriatezza scientifica.
Ogni riflessione, per altro, non può che discendere dall’affermazione dei princìpi di salvaguardia della dignità della persona umana e del suo bisogno di salute.
Fatte queste premesse, cerchiamo a questo punto di indagare i momenti più importanti e vitali nella vita di una persona con disabilità.
Comunicazione della diagnosi
La comunicazione della diagnosi non può essere intesa come la mera informazione di quanto sta accadendo. Infatti, qui inizia un percorso che avrà bisogno di tempi di comprensione e di accettazione.
Servono in ogni caso diagnosi attendibili e omogenee che siano concordate nella forma e nel contenuto, quando devono essere fornite da parte di un’équipe e non di un solo operatore. Chi comunica e trasmette una diagnosi non deve creare confusione in chi la riceve e dev’essere sicuro che le informazioni possano essere interiorizzate indipendentemente dal livello di comprensione di chi ascolta.
A tal proposito penso ad una figura con competenze tecniche specifiche in materia, ma anche con attitudini relazionali adeguate, capace di usare linguaggi chiari e comprensibili a chiunque. E questo perché non esiste solo il livello di comprensione legato alle competenze culturali, ma è forte ed influente la comprensione – o non comprensione – legata al livello emotivo.
Infatti, anche se non è scientificamente rilevabile, di solito una madre intuisce la diagnosi, ma di fronte alla certezza si rifugia nel miracolistico e nell’immaginario. I padri, invece, sono più assenti, ma una volta coinvolti si rivelano più concreti e passano immediatamente al «cosa possiamo fare».
Altro elemento importante di cui tenere conto è quello dovuto ai mutamenti sociali avvenuti nel nucleo familiare.
Nonostante nella nostra società possiamo riconoscere la famiglia come una componente ancora solida del mondo della persona disabile in genere, la progressiva riduzione della dimensione dei nuclei familiari, le sempre maggiori esigenze di mobilità che non permettono relazioni forti sul territorio, il gran numero di famiglie con un solo coniuge o di famiglie ricostituite pongono dei gravi ostacoli ad una corretta accoglienza della diagnosi e possono rendere difficili o impedire percorsi di riabilitazione e di cura.
Comunicazione della prognosi
Si tratta di un altro momento molto delicato, dove si aprono discussioni sul significato stesso da attribuire al termine recupero, la fase cioè in cui si deve affrontare la verità del divario tra desiderio e realtà, ciò che vale sia per l’adulto consapevole che per la persona che non può rappresentarsi da sola e soprattutto per la famiglia del bambino con disabilità.
Qui viene programmato il percorso riabilitativo, l’attivazione dell’alleanza terapeutica che, mantenuta nel tempo, programmata e adattata alle specifiche esigenze dei singoli soggetti, dovrà tenere conto delle potenzialità di coesione e solidarietà della rete familiare e amicale, nonché dell’insostituibilità nella conoscenza delle caratteristiche personali e socio-culturali della persona con disabilità e della sua famiglia.
Anche in questa fase incombe un grosso rischio che è quello del comprendere la differenza di significato tra il “prendersi cura” e la limitatezza della “cura” dei deficit; è l’ammettere che si deve costruire un progetto di vita di quella persona e naturalmente più è complessa la natura del bisogno, più è alta l’intensità e la durata dell’intervento, più dovrebbe prevalere il valore dell’etica su quello della scienza, del tempo e dell’impegno economico e sociale.
Quello che serve è un giudizio clinico prognostico attendibile, condiviso nell’équipe ed espresso in forma scritta, dove i vari operatori (fisiatra, neurologo ecc.) siano in grado – attraverso valutazioni puntuali e oggettive – di informare correttamente i soggetti coinvolti circa la possibile evoluzione del quadro clinico generale e le necessità attuali, fornendo adeguate istruzioni di addestramento ai compiti di assistenza e il sostegno emotivo nell’accettazione degli esiti.
Un giudizio clinico prognostico attendibile può facilitare il processo di acquisizione della realtà e sostenere la persona e/o la famiglia nella sopportazione dell’inevitabile stress emozionale. E questo è ancor più vero se si pensa alla differenza tra diagnosi e prognosi in situazioni di disabilità fisica o intellettiva o psichica o comportamentale.
Infatti, la persona con disabilità e/o la famiglia, quand’anche il giudizio sia negativo rispetto alle probabilità di ripresa, deve percepire nel gruppo la competenza tecnica, l’accoglienza, la condivisione, la partecipazione empatica alla propria difficoltà e il rispetto della propria dignità.
E allora, anche di fronte al senso di impotenza quando si deve rispondere alle domande «Non so cos’ha», «Non so perché», «Come sarà dopo» e «Come si fa», la verità può agire da potenziatore psicologico attraverso il rapporto di sincera e profonda alleanza instauratosi tra il team e le persone coinvolte.
Impatto della disabilità con l’ambiente esterno
Sempre ragionando nella prospettiva di interventi rispettosi della continuità della cura, di un’approfondita e prolungata osservazione del paziente, di un’attenta valutazione del progetto individuale, della qualità degli interventi riabilitativi, assistenziali e di supporto psicologico alla famiglia, non si può non tenere conto di come si impatta la disabilità nel contesto abituale dove la persona vive.
Parlo della comunità sociale, del gruppo dei “pari”, della famiglia nei rapporti con il partner, dei genitori, dei fratelli.
Di tutti questi ambiti bisognerà tenere conto per fornire adeguati sostegni alla persona rispetto al livello di gravità della condizione. Infatti, una gravità lieve, media o grande attiverà diverse dinamiche di risposta nell’ambiente e la persona stessa ne subirà effetti differenti.
Attualmente si può dire che la condizione di grave disabilità, nonostante tutto, sia paradossalmente “la più protetta”, talché sul territorio nazionale – pur non certo omogeneamente – le risposte ad essa, una volta attivate, vengono erogate tenendo conto della condizione.
Faticosa risulta invece l’erogazione dei servizi alle disabilità di livello medio, con la proverbiale diatriba tra rilevanza sociale e sanitaria e il palleggiamento di competenze che spesso danneggia il programma assistenziale e riabilitativo.
In altre parole, o sono troppo gravi le condizioni personali per le proposte esistenti o è troppo complicato accedere al servizio.
Completamente scoperti, infine, risultano i soggetti con disabilità lievi che di solito sono di tipo intellettivo e/o comportamentale. Essi normalmente non vengono accettati quali “disabili” dalle stesse famiglie, spinte “a nascondere il problema”, nella speranza che possa essere “non notato”. Una negazione, questa, che può portare a diagnosi tardive e a prognosi infauste, rispetto al recupero, con possibili peggioramenti delle stesse difficoltà.
Di contro i servizi di riabilitazione – siano essi educativi, psicologici, comportamentali o altro – già oberati dalle necessità delle persone con disabilità gravi, faticano a fornire prestazioni in tali situazioni (se non addirittura le negano), né si scorgono grandi disponibilità di risorse e servizi nelle nuove proposte di politica amministrativa.
Si tratta di un problema serio perché parliamo di persone che in genere sono minori e adolescenti le cui disabilità lievi spesso producono nel tempo devianze comportamentali e/o disturbi psichiatrici, con conseguente inserimento di questi soggetti nelle carceri o nei reparti ospedalieri psichiatrici.
Mantenimento – Benessere
Concludiamo il percorso proposto con una domanda fondamentale: che cos’è il benessere per la persona con disabilità? Certamente è la prevenzione del peggioramento della sua condizione, ma è anche il mantenimento di una personale autonomia ottenuta, ovvero un buon livello di qualità della vita misurata su quella stessa persona.
Perché ciò accada è necessario però progettare interventi personalizzati, evitando indicazioni precostituite inutili e per questo costose. Ogni progetto a lungo termine dovrà dunque essere individualizzato e basato sui bisogni riabilitativi del soggetto e non su quanto è a disposizione al momento sia in termini di risorse economiche che di servizi.
Non è possibile garantire l’autonomia funzionale, rallentare i processi involutivi, promuovere e facilitare la partecipazione alla vita di relazione fornendo un elenco di servizi, senza verificare se questo è ciò di cui ha bisogno la specifica persona per il suo progetto di vita personale.
Serve conoscere la persona, il suo contesto sociale e familiare, mettersi in ascolto e avere la volontà di rispondere a quello specifico bisogno. Serve capire quanto incidano i fattori scienza, linguaggio e tempo e quanto si possa accettare che il fattore economico interferisca sulle decisioni che influiscono sui progetti di vita dei cittadini.
Un’ultima considerazione appare necessaria, visto anche che si sta parlando di appropriatezza ed accettabilità.
In ogni intervento progettato e fornito ai cittadini dovrebbero sempre essere previsti la valutazione e il monitoraggio della qualità, fondati su indicatori o livelli standard che però non dovrebbero essere solo di tipo economico e amministrativo, ma basati su indicatori di qualità della vita percepita. Proprio qui, infatti, si perfeziona l’appropriatezza e l’accettabilità di ogni intervento.
D’accordo, insomma, “fare le cose giuste”, sapendo se si agisce nella maniera corretta, ma per poter realmente “fare bene il bene” bisogna soprattutto essere consapevoli di agire utilmente ed efficacemente rispetto agli obiettivi che ci si è posti.
*Estratto da intervento presentato al Convegno Fare le cose giuste. L’appropriatezza in medicina riabilitativa, Ferrara, 15-17 dicembre 2005.
**Associazione Genitori della “Nostra Famiglia” di Bosisio Parini (Lecco). Presidente del CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità), organismo che rappresenta l’Italia nell’EDF (European Disability Forum).
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