È da tempo che il tema dell’eutanasia ritorna periodicamente all’attenzione dell’opinione pubblica. Noi non abbiamo la presunzione di fornire una risposta esaustiva ed esauriente alle difficili e delicate questioni umane poste da tale questione, ma riteniamo utile portare al dibattito in corso il contributo della nostra esperienza di famiglie con figli affetti da cerebrolesione, spesso in forma gravissima, non di rado di gravità estrema.
In generale, il problema dell’eutanasia viene identificato con la domanda: «Ha una persona che soffre il diritto di scegliere di morire?». A nostro parere, invece, il tema dell’eutanasia dev’essere inquadrato in una prospettiva orientata alla vita. Le prime domande da porsi devono essere cioè: «Perché una persona arriva a desiderare di morire?»; «Cosa può e deve fare la società per prevenire questa richiesta?».
Numerosi esempi – alcuni presentati anche dai mass media – dimostrano che il desiderio di vivere non dipende tanto dalla gravità delle limitazioni funzionali, quanto piuttosto dalla ricchezza della rete di relazioni in cui una persona è inserita.
Nella cultura dominante si tende a dimenticare che l’uomo è soprattutto un essere di relazione, un individuo sociale e che l’essenza della qualità di vita è determinata soprattutto dai legami d’affetto.
Chi soffre o è affetto da disabilità percepisce con maggiore intensità la mancanza di questi legami e, quando è sopraffatto dal vuoto di affetti, perde ogni motivazione alla vita.
Occorre quindi superare la visione individualistica del problema, per porlo nel contesto molto più ampio delle relazioni sociali.
Gli interrogativi che ci dobbiamo porre sono: «La società favorisce la formazione di legami d’affetto e di reti di sostegno e di solidarietà?»; «Una persona con disabilità è bene accolta dalla società?»; «I diritti fondamentali di una persona con disabilità sono vuote parole o sono effettivamente garantiti?».
La nostra esperienza ci porta spesso a rispondere negativamente a tali quesiti. Raramente, infatti, la società in cui viviamo favorisce il miglioramento della qualità di vita, mentre sembrano prevalere modelli basati sull’apparire, sulla competizione e sul successo individuale. Non meraviglia quindi che le persone con disabilità siano considerate “un inutile peso”, che la famiglia sia in crisi, che le situazioni di solitudine e i suicidi siano in aumento.
Per concludere, pur esprimendo il massimo rispetto per coloro che si sentono sopraffatti dal peso della propria esistenza:
– ribadiamo una posizione critica verso una società che si limita a chiedersi se una persona abbia il diritto di terminare la propria vita senza sentirsi responsabile per lo scarso impegno dedicato ad un’efficace prevenzione delle situazioni di disagio;
– auspichiamo che il tema dell’eutanasia non sia equiparato al “diritto alla morte”, ma sia affrontato nella prospettiva – molto più impegnativa per tutti – del “sostegno alla vita”;
– confidiamo che siano avviate iniziative concrete atte a prevenire le richieste di suicidio assistito e a sostenere le persone in grave difficoltà;
– auspichiamo la promozione di una società basata sulla collaborazione e la cooperazione tra le persone, anziché sulla competizione e sulla prevaricazione;
– ribadiamo infine il diritto delle persone con disabilità ad intervenire nel dibattito su tutte le questioni sociali e bioetiche che le vedono direttamente o indirettamente coinvolte.
*Associazione Bambini Cerebrolesi.
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