Il sipario si apre. Fuori campo una voce femminile parla dell’acqua, acqua cristallina in cui specchiarsi, acqua in piena di un fiume arrabbiato. Mentre la voce evoca tali suggestioni, l’occhio degli spettatori è catturato dalle improvvisazioni attoriali che materializzano le parole, quasi danzando con la musica…
È l’8 ottobre 2006 e siamo a Sondrio, al Teatro Parrocchiale San Rocco. In scena la compagnia teatrale Playback Theatre Integrazione, così composta: Nadia Lotti, direttrice della Scuola Italiana di Playback Theatre è la conduttrice, affiancata dal musicista Alberto Vinci e da due attrici volontarie (Andreina Rainoldi e Valeria Merighi).
E poi loro, i sei attori con sindrome di Down attorno a cui ruota tutta la rappresentazione, Cristina Acquistapace, Simona Macocci, Franco Marveggio, Alessandra Peracca, Cristian Romeri e Silvana Scarinzi.
Com’è andata? Lo chiediamo direttamente proprio a Nadia Lotti. «È andata benissimo. Faccio parte di diverse compagnie di Playback Theatre e ho avuto molte esperienze negli anni. Ma non sento mai tanti applausi come quando va in scena la compagnia Playback Theatre Integrazione. Il pubblico si diverte moltissimo».
Lotti dirige la scuola italiana di Playback Theatre, un metodo di improvvisazione teatrale messo a punto alla fine degli anni Settanta dall’americano Jonathan Fox che, ispirandosi agli insegnamenti del maestro Jacob Levy Moreno, padre dello psicodramma e fondatore del Teatro della Spontaneità, chiede agli attori di mettere in scena, improvvisando, le storie che il pubblico propone loro.
Indicato in situazioni comunitarie di vario tipo, questo metodo ha valenza artistica, ma anche socio-culturale e formativa e può essere una risorsa in ambito psicoterapeutico. In questo senso da anni esistono laboratori di Playback Theatre rivolti a persone con disabilità, ma l’idea della Lotti di fondare una vera e propria compagnia di improvvisazione teatrale di persone con disabilità è per ora, tra le esperienze iniziate da Fox, unica al mondo.
E tuttavia, il solo modo per capire veramente di cosa si tratti è partecipare a uno spettacolo. Per questo invitiamo i lettori di Superando.it a seguire il racconto che Nadia Lotti ha fatto per noi dell’ultimo spettacolo della Compagnia Integrazione, andato in scena l’8 ottobre.
«Il Centro Servizi Volontariato di Sondrio ha promosso un festival dedicato al tema dell’acqua, all’interno del quale ha inserito una data per un nostro spettacolo.
All’inizio della nostra rappresentazione, mentre io, che sono la conduttrice, suggerivo alcune associazioni libere sul tema prescelto, gli attori le rappresentavano attraverso l’improvvisazione. E al momento dell’interpretazione della tempesta, Silvana, che soffre di frequenti microcrisi epilettiche, si è irrigidita cadendo a terra. Le due volontarie l’hanno assistita e intanto lo spettacolo è continuato. Poco dopo Simona si è ripresa e ha continuato a recitare».
Ma il pubblico se n’è accorto?
«Non lo so, forse alcuni. Altri devono aver pensato che facesse parte dello show ed è esattamente questo il principio dell’improvvisazione teatrale. Gli attori gestiscono l’imprevisto inserendolo nello spettacolo, rendendolo un valore aggiunto, un’idea piuttosto che un intoppo».
E poi?
«Mi sono rivolta al pubblico spiegando loro che cos’è il Playback Theatre. Poi ho diviso gli otto attori, tutti vestiti di nero, in due gruppi ed è rimasto sul palco solo il primo di essi, con gli strumenti di scenografia (quattro cubi, un trespolo e dei teli colorati). Allora ho invitato gli spettatori a raccontare al proprio vicino qualcosa sul proprio rapporto con l’acqua e infine, chi voleva, l’ha condiviso con tutta la platea».
Quali immagini sono emerse?
«L’acqua è stata raccontata come indispensabile per pulire la casa, come refrigerio nell’afa estiva, come nutrimento per le piante e come luogo meraviglioso delle immersioni subacquee. Per ogni immagine dicevo al pubblico “guardiamo” e ogni volta sul palco i quattro attori hanno improvvisato una piccola scena.
Le rappresentazioni sono state tutte accompagnate dalla musica di Alberto Vinci, che ha improvvisato, come gli attori e come me che ho condotto. Ci sono state molte risate e molti applausi. A questo punto il pubblico era pronto».
Pronto per cosa?
«Pronto per loro: Cristian Romeri, Silvana Scarinzi, Franco Marveggio e Cristina Acquistapace, i quattro ragazzi con sindrome di Down che compongono il secondo gruppo. Improvvisano sempre insieme e sono davvero fenomenali, al punto che di solito fanno fatica a finire la rappresentazione perché gli applausi partono sempre prima, coprendo le loro voci».
Si tratta del momento clou dello spettacolo?
«Sì. È il momento delle storie. Il metodo del Playback Theatre, a cavallo tra arte, intervento sociale e rituale, onora le storie personali e le fa diventare immediatamente teatro. Ho chiesto al pubblico di raccontarci quattro vicende significative per loro. Per prima ha parlato una giovane sposina che da piccola aveva il terrore dell’acqua. In spiaggia stava lontana dal mare e in questo era assecondata dai genitori. Una volta sposata, però, il marito l’ha incoraggiata a superare questa paura, proponendole di andare insieme in piscina dove, di fronte all’ennesima crisi di panico di lei, l’ha letteralmente “buttata in acqua”, per poi assisterla amorevolmente. La sposina ha spiegato di aver così superato il proprio blocco».
Cristian, Silvana, Franco e Cristina hanno messo in scena questo ricordo?
«La narratrice ha assegnato loro i ruoli, di se stessa, dei genitori e del marito. Nel modo enfatico che li caratterizza e li rende molto comunicativi e divertenti, i quattro attori hanno dato vita alla storia. Franco Marveggio – il più galante tra tutti noi – nello spettacolo aveva il ruolo del marito e ha riempito la moglie di carezze e attenzioni dopo averla buttata in piscina. Gli applausi sono partiti prima della fine della scena».
E la seconda storia?
«Prima di passare alla storia successiva chiedo sempre al narratore un riscontro sulla rappresentazione, in cui abbia la possibilità di dire cosa corrisponde al vero e che cosa invece è diverso.
Poi è stata la volta di una ragazza disabile del pubblico che ha raccontato di essersi scottata facendo la doccia aiutata dalla madre. Le abbiamo chiesto di assegnare i ruoli: lei stessa, sua madre, l’urlo di dolore e il maggiordomo. Il personaggio del maggiordomo non c’è nella storia vera, ma l’abbiamo inserito perché la narratrice ne avrebbe desiderata la presenza.
Gli attori sono stati comici. La mamma aveva un atteggiamento un po’ dispotico e quando la protagonista si è scottata ed è entrato in scena l’urlo, Cristian, che lo personificava, dopo aver gridato, ha chiesto al pubblico se era andato bene o se forse avrebbe dovuto urlare più forte. Poi il maggiordomo è arrivato con gli asciugamani a massaggiare la ragazza, che dopo un po’ si è stufata e ha esclamato “Basta con ‘sti massaggi, mi fai male!”».
Gli attori sembrano molto simpatici…
«Questo è decisamente il loro punto forte. Hanno un modo ingenuo e umoristico di rielaborare gli avvenimenti che permette anche allo spettatore di non prenderli troppo sul serio, di sdrammatizzare».
La rappresentazione è continuata su questi toni?
«Sì. Anche le ultime due storie, entrambe ambientate in montagna, sono state oggetto di un’improvvisazione teatrale. Nella prima la narratrice e un amico avevano tantissimo caldo e hanno trovato refrigerio in un ruscello montano. Gli attori hanno interpretato anche il sole, che seguiva i due protagonisti ovunque, soffiando aria calda, e il ruscello, che li chiamava e poi sventolava loro addosso un po’ di fresco.
Nell’ultima storia una signora dimentica il tettuccio dell’automobile alzato in una giornata di afa terminata con un temporale estivo che le allaga l’abitacolo. Naturalmente, uno dei quattro attori ha interpretato la vettura inzuppata».
Il pubblico si è divertito?
«Mi sono sembrati tutti entusiasti. Con la compagnia Integrazione succede qualcosa di molto particolare. Gli spettatori sono più generosi del solito, più desiderosi di essere coinvolti. E accettano, con piacevole stupore, di affidarsi agli attori con disabilità che si prendono cura di loro e li accompagnano in un percorso di catarsi. Il ribaltamento, per cui non sono loro a prendersi cura della persona disabile ma viceversa, è carico di significati».
E gli attori?
«Ci tengono moltissimo. E ci tengono molto le loro famiglie. All’inizio, nel 2004, quando è stata fondata la compagnia, i ragazzi erano più numerosi. Poi alcuni se ne sono andati e mi è sembrato di cogliere un disagio da parte di alcune famiglie nel vedere i propri figli mettersi a nudo sul palcoscenico. Quelli che ancor oggi partecipano al gruppo hanno alle spalle delle famiglie molto convinte della bontà dell’esperienza».
tel. 0342 211904, nadialotti@virgilio.it.
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