Il confronto tra gli uomini e le idee è sempre stato occasione di reciproca conoscenza e di progresso. Lo stesso si può dire dell’incontro tra i fornitori di servizi e gli utenti, anche in campo sanitario; tra i professionisti della riabilitazione e le famiglie con disabilità, per limitare il ragionamento al nostro specifico settore.
Naturalmente nulla vieta che società che rappresentano settori professionali specifici tengano corsi riservati ai soli iscritti – anche nell’ottica del conseguimento di punteggi per l’Educazione Continua in Medicina (ECM) – come accadrà a Bologna, il 18 e 19 giugno prossimi, con il corso Terapie alternative e complementari nella riabilitazione delle disabilità dello sviluppo, incontro intersocietario di SIMFER (Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa) e SINPIA (Società Italiana di Neuropsichiatria dell’Infanzia e dell’Adolescenza). Quando però questi corsi riguardano le “evidenze di efficacia” di terapie non-convenzionali e alternative, appare singolare che non venga utilizzato l’apporto di conoscenze, anche critiche, che le famiglie hanno maturato “sul campo” e questo senza la mediazione del riferito e del riportato.
A questo riguardo ci piacerebbe anche conoscere le “evidenze di efficacia” dei trattamenti “ufficiali” offerti dal Servizio Sanitario Nazionale. In molti Paesi – evidentemente più evoluti del nostro, dal punto di vista sociale – questo è visto come un atto dovuto: il Servizio Sanitario è infatti pagato dai cittadini, che hanno il diritto di sapere con quali criteri vengono utilizzati i fondi versati allo Stato.
Se poi ancora pensiamo che questi corsi possano essere finalizzati all’emanazione di nuove Linee Guida in materia di riabilitazione pediatrica, allora, dal nostro punto di vista, riteniamo fondamentale ribadire alcune raccomandazioni dell’Istituto Superiore di Sanità (Documento PNLG10, Il coinvolgimento dei cittadini nelle scelte in Sanità): «Un importante ruolo nel coinvolgimento dei pazienti in Sanità è giocato dalle associazioni di pazienti. […] Vivendo a lungo con una malattia e imparando a gestirne le conseguenze, molte persone sviluppano un alto grado di capacità e buon senso. […] Spesso le autorità sanitarie non riconoscono il valore dell’ascolto e della risposta ai pazienti e non riconoscono che l’esperienza del paziente è fondamentale per migliorare un servizio o per fornire una prestazione nuova. […] Le proposte di cambiamento di un servizio dovrebbero fondarsi sulle valutazioni e sulle esperienze delle persone che utilizzano il servizio stesso o che potrebbero usarlo in futuro. Il coinvolgimento dei pazienti e della comunità rappresenta un elemento centrale per lo sviluppo di un servizio sanitario. […] Tale approccio richiede di conoscere le esperienze dei pazienti/cittadini, di verificare la rispondenza dei servizi ai loro effettivi bisogni, di sviluppare e incoraggiare il dialogo fra i pazienti/cittadini e i sanitari o i responsabili delle scelte politiche, di migliorare la qualità dei servizi forniti, di identificare strategie per andare incontro ai bisogni dei pazienti, di poter utilizzare le informazioni fornite dai pazienti traducendole in servizi».
Né ci consola il fatto che venga annunciato, per l’autunno, un analogo corso per genitori e associazioni: in questa “separazione” e in questo “dopo” le famiglie con disabilità paventano una volontà di indottrinamento, di richiesta di adesione a una sorta di “verità rivelata”.
Un’altra occasione perduta, dunque, per mettere in pratica i suggerimenti dell’Istituto Superiore di Sanità. Peccato. Confidiamo nel buon senso e nelle capacità critiche delle nuove generazioni di professionisti.
*Federazione Italiana ABC (Associazione Bambini Cerebrolesi).
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