Il 19 novembre scorso, come avevamo riferito (se ne legga cliccando qui), si è tenuto a Roma il seminario introduttivo per genitori ed educatori, denominato Il benessere del bambino nelle situazioni di patologie complesse, sul tema Minorazione visiva e disturbi pervasivi dello sviluppo.
A condurre l’incontro è stata la psicologa e psicoterapeuta Maria Luisa Gargiulo l’obiettivo della quale era quello di rivolgersi a una ristretta cerchia di persone, interessate appunto al miglioramento della qualità della vita dei bambini con problemi visivi ed altri disturbi dello sviluppo. Il tema, però, nonostante la diffusione non ampia della notizia, ha riscosso un interesse che è andato ben oltre le previsioni – con la partecipazione di persone provenienti anche da altre Regioni d’Italia – a riprova del fatto che esso riguarda una necessità particolarmente sentita. Ne abbiamo parlato con la stessa Maria Luisa Gargiulo.
Un interesse, per questo seminario, che è andato ben oltre le previsioni, dunque…
«Proprio così. Erano previsti infatti trenta posti, ma di fatto ho dovuto modificare vari aspetti dell’organizzazione, per rispondere a un numero molto alto di richieste, tant’è che in corso d’opera ho dovuto cambiare sede, per poter utilizzare ambienti più adeguati alle nuove necessità.
Sono giunte persone anche da luoghi lontani (Calabria, Campania, Trentino), cosa che testimonia la forte esigenza di poter parlare di situazioni ormai sempre più distanti dalla classica “iconografia del bambino cieco” di buona memoria.
Si è trattato poi di un’esperienza che mi ha portata a fare alcune riflessioni. Ho avuto ad esempio la conferma che c’è tanto bisogno di buone informazioni su problemi molto diffusi, per i quali i genitori dei bambini con problemi di vista trovano raramente risposte soddisfacenti».
Quali sono stati esattamente i contenuti del seminario?
«L’evento si rivolgeva a genitori ed educatori, anche se vi hanno preso parte pure alcuni riabilitatori, psicologi e medici. Si è parlato del benessere del bambino condizionato dall’interazione di più diagnosi o con quadri funzionali complessi, comprendenti anche il deficit visivo e disturbi pervasivi dello sviluppo. Si sono inoltre accennate le linee guida di approccio educativo attualmente accreditate in questo tipo di situazioni, prestando una speciale attenzione alle differenze di approccio e alle particolarità del bambino con deficit visivo e con disturbi di sviluppo di questo genere».
Ma qual è stata la spinta ad organizzare un evento come questo?
«Da una parte una ragione professionale, dall’altra una assolutamente personale. Lavoro infatti da circa vent’anni in questo settore e ho potuto studiare e imparare dalle fonti e dagli illustri educatori del passato. Ho incontrato tanti bambini e genitori, alcuni dei quali li seguo direttamente da anni. Con altri bimbi, inoltre, ho un ruolo indiretto, svolgendo consulenze e valutazioni, utilizzate poi da quelli che si occupano di loro. E tuttavia, negli ultimi anni ho sentito sempre più pressante il disagio dei genitori e di molti educatori che non riscontrano quasi mai alcuna somiglianza tra le difficoltà che hanno e quelle che si aspetterebbero di dover avere.
Il secondo motivo, di ordine personale, è scattato in seguito a un sentimento di gratitudine per l’interesse dimostrato da molti genitori ed educatori, allorché il mio editore mi comunicò che un mio libro del 2005 [“Il bambino con deficit visivo”. Se ne legga ampiamente nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.], essendo esaurito, era andato recentemente in ristampa. Questo volume tratta specificamente delle particolarità dei bimbi ipovedenti e ciechi dalla nascita, ma in esso viene dato poco spazio ad altri disturbi dello sviluppo, perché il suo scopo era quello di descrivere le peculiarità derivanti da tale specifica situazione. Anche se poi nel 2009 ne ho scritto un altro [“Crescere toccando”, insieme a Valter Dadone, se ne legga ampiamente nel nostro sito cliccando qui, N.d.R.], evidentemente quel primo libro, che ancora sottoscriverei, ha risposto ad alcune esigenze e ad un vuoto informativo, continuando ad essere richiesto.
A quella notizia, quindi, ho reagito da una parte con grande gioia, ma dall’altra con la sensazione di “essere in debito”, o meglio di aver voglia di restituire qualcosa a tutte le persone che avevano contribuito al successo editoriale del testo. E così ho pensato di finanziare personalmente questa iniziativa seminariale, che ho realizzato in modo del tutto autonomo e indipendente. In sostanza, invece di celebrare i successi passati, ho preferito andare avanti e affrontare le problematiche per me rilevanti al momento attuale».
Ma in che cosa consiste la reale utilità di iniziative come queste?
«Offrire ai genitori una lettura chiara per poter osservare alcuni comportamenti dei loro figli, secondo me è il primo passo per attivare possibili soluzioni. Qualche volta parlare in modo semplice è più difficile e scomodo che tenere una relazione dotta per eminenti studiosi. Però quando un genitore viene messo in condizione di capire, è senz’altro in grado di prendere le migliori decisioni per il suo bambino.
Ho sempre cercato di realizzare per i genitori incontri divulgativi e questo seminario l’ho organizzato per parlare di alcuni aspetti della crescita. Credo profondamente al potere della comunicazione, se si attua con quella che io chiamo la “democrazia delle parole”. Le parole, infatti, non devono servire a marcare differenze culturali o di ruoli, ma a fare chiarezza e a condividere e cooperare.
Credo insomma che sia necessario mettere a disposizione anche di questi genitori ed educatori le moderne conoscenze che derivano dalla ricerca scientifica – inclusa la ricerca di base e la ricerca clinica – anche se essa non è specificamente derivante dalla letteratura tiflologica classica, perché i loro figli, prima di essere ciechi o ipovedenti, sono innanzitutto dei bambini. Settorializzare troppo, ossia tentare di forzare un’assimilazione (spesso arbitraria) tra questo o quel bambino, e lo stereotipo del bimbo cieco o cieco pluriminorato, significa negare molte opportunità di salute a tante persone.
Penso quindi che sia enormemente conveniente per un genitore approfondire la conoscenza di alcune particolarità di sviluppo del proprio figlio, anche se questo può comportare un grande sforzo e la necessità di adeguare le proprie scelte.
Ho sempre considerato fondamentale per me – come professionista della salute e come persona con disabilità – il beneficio che viene da un’alleanza profonda con una famiglia che condivide gli obiettivi di benessere del bambino, con gli educatori e i riabilitatori che lavorano con lui».
Quali sono le particolarità e le differenze di cui parla, quando si sofferma sul fatto che questi bambini «sono spesso diversi da quelli che vengono descritti nella letteratura tiflologica classica»?
«Sappiamo che vi sono molti bambini e ragazzi con disabilità della vista i cui comportamenti denotano una combinazione di problemi nella sfera degli interessi, della comunicazione e dell’interazione sociale. Purtroppo a questa constatazione segue spesso un senso di sgomento e solitudine, perché i bambini con problemi di vista che non corrispondono allo stereotipo positivo e rassicurante dell’immaginario collettivo, sono come sospesi in una “terra di nessuno”, e così anche coloro che si occupano di loro. Parimenti, i genitori e gli insegnanti di questi bambini spesso non vedono riconosciuti i loro bisogni di aiuto, perché i loro figli o allievi sono troppo diversi da quello che ci si aspetterebbe.
Del resto, i motivi per cui nel 2011 si hanno problemi alla vista nella prima infanzia, sono generalmente molto diversi da quelli che caratterizzavano i bambini di cento o anche solo di trent’anni fa. Essi, infatti, sono nella maggioranza dei casi collegati a situazioni molto complesse, ad esempio sofferenze alla nascita, lesioni al sistema nervoso centrale, oppure particolari sindromi genetiche, che conducono a diversi ambiti di disagio. E anche il modo di comportarsi di questi bambini è spesso diverso da quello che costituiva la tipicità delle situazioni descritte precedentemente, presentando invece caratteristiche comuni ad altri tipi di disturbi.
A prescindere comunque dalla causa biologica della cecità, avere un problema visivo, insieme a uno o più problemi ulteriori, non equivale mai ad avere la somma delle conseguenze delle due patologie prese singolarmente, perché le variabili si condizionano reciprocamente, restando sempre presenti i singoli problemi, ma dovendosi tener conto soprattutto del modo nel quale essi interagiscono tra loro. Questa difficoltà a valutare le situazioni complesse viene restituita ai genitori come fosse un ostacolo insormontabile alla diagnosi, mentre a volte definire precisamente un disturbo di sviluppo è il primo passo verso l’avvio di misure educative e riabilitative appropriate».
Qualche esempio?
«Vi è una grande frequenza di problematiche comportamentali che compaiono tipicamente dal secondo al quarto anno di vita e che, se non ben identificate, si stabilizzano e si evolvono negativamente con il tempo. L’importanza dell’individuazione tempestiva di un problema comportamentale risiede specificamente nel fatto che esso deriva dall’interazione tra il comportamento del bambino e il comportamento di quelli che hanno a che fare con lui. Quindi, modificando le condizioni ambientali e interpersonali, si può aiutare un bambino a ridurre la frequenza, l’intensità o la durata di un comportamento problematico, spesso arrivando fino all’eliminazione del comportamento stesso, specie se si lavora in modo sistematico e coordinato.
Gli adulti, senza volerlo, possono accentuare il problema comportamentale, perché quando noi siamo davanti a un bambino che soffre e ci mette in difficoltà, qualche volta reagiamo senza riflettere, riproponendo in modo assolutamente prevedibile una reazione inadeguata, che rinforza il comportamento problematico, estendendolo frequentemente a molti ambiti della vita quotidiana. Si tratta di azioni con funzione di richiesta, fuga o evitamento, che si manifestano come autolesionismo, buttarsi per terra, sbattere la testa, urlare ecc.
Un altro aspetto molto frequente concerne la tendenza del bambino a mantenere focalizzato l’interesse su un certo argomento, una certa domanda, o su particolari caratteristiche o parti di oggetti ecc. Qui, a differenza delle reazioni causate dalla deprivazione sensoriale – in cui la persona produce a se stessa delle sensazioni attraverso i movimenti stereotipati, quando si trova in condizioni di mancanza di stimoli esterni – si possono osservare bambini che focalizzano la propria attenzione in modo molto selettivo su alcuni elementi, addirittura creando essi stessi una sorta di monotonia percettiva, perché escludono o limitano fortemente l’interesse verso nuovi elementi e manifestano poca propensione verso le novità e tutto ciò che non era previsto.
Per fare infine un altro esempio, vi sono anche molte persone che presentano disturbi della comunicazione e dell’interazione sociale: dal punto di vista dello sviluppo del linguaggio, ciò che si può osservare è molto diverso dal verbalismo che viene descritto nella letteratura classica».
Può precisare meglio quest’ultimo aspetto?
«Con il termine verbalismo si indica il fenomeno per il quale i bambini ciechi tendono a utilizzare parole – il più delle volte nomi di oggetti o verbi riguardanti azioni – senza conoscerne realmente il significato. Si tratta di un fenomeno del linguaggio che deriva dalla deprivazione di esperienze concrete, il più delle volte causato dall’assenza della vista. Quindi è un fenomeno direttamente riconducibile alla deprivazione sensoriale, perché deriva da una difficoltà, non compensata, ad avere esperienze personali collegate alle parole che si ascoltano o che si usano.
Il bambino affetto da verbalismo utilizza le frasi con una struttura morfologica e sintattica corretta, ma compie degli errori semantici, nel senso che utilizza parole con significato errato o mancante, alle quali non può associare un ricordo diretto e personale. Perciò l’uso di quelle parole è formalmente corretto, perché il bimbo le usa così come le ha sentite utilizzare dalle altre persone, cercando di intuirne il significato, per quello che può, con deduzioni dal contesto e dalle frasi in cui quella parola è stata usata.
Di questi problemi ci si accorge solo quando si fanno al bambino domande sul significato delle parole che ha usato. E così troviamo “gatti con due zampe”, “tartarughe che galoppano”, “gólfi fatti di lana”, “cascate e fiumi alimentati dai rubinetti”, “mele appese ai rami degli alberi con le mollette, già sbucciate e tagliate in quarti”. Si tratta perciò di un problema che deriva da un’errata deduzione che il bambino compie, ma egli può utilizzare un pensiero immaginativo e tutta una serie di competenze intuitive a sua disposizione.
Invece, ciò che oggi sempre più si riscontra, anche nei bambini con problemi percettivi visivi, riguarda la qualità della comunicazione e si tratta di problemi che hanno a che fare, il più delle volte, con gli aspetti pragmatici e morfologici del linguaggio espressivo, più che con quelli di tipo semantico. Ad esempio: le frasi di richiesta non vengono utilizzate nella loro funzione corretta, ma riprodotte fuori contesto, e spesso con una funzione non immediatamente comprensibile alle altre persone. Vengono per lo più imitate le espressioni linguistiche con lunghe stringhe di parole, pronunciate sempre tutte assieme e nello stesso ordine, invece di creare nuove frasi, utilizzando le regole grammaticali e morfologiche che sono alla base della struttura linguistica. Spesso questi bambini, per chiedere qualche cosa – ad esempio di essere presi in braccio – ripetono le frasi che gli adulti rivolgono loro per offrire qualcosa (ad esempio: “non dirmi che sei già stanco?”) oppure tentano di riprodurre la stessa situazione che si verifica prima di ottenere ciò che desiderano (ad esempio si buttano per terra e urlano). In altri casi, essi fanno fatica a ribaltare dal punto di vista grammaticale i pronomi e i verbi. Ciò accade anche dal punto di vista spaziale e quindi non riescono a immaginare una certa situazione, modificandone il punto di osservazione o di narrazione. Troviamo l’uso invertito dei pronomi, una certa imprecisione nell’uso dei verbi che descrivono azioni con due interlocutori, come prendere e dare, andare e tornare, lasciare e prendere».
Ma perché ritiene importante che un genitore approfondisca la conoscenza di queste cose?
«Avere un quadro preciso è utile perché la riabilitazione e l’educazione basata su un’azione aspecifica non è molto efficace. Credo quindi che sia più conveniente capire bene quali sono i problemi e le capacità del bambino, perché gli approcci più moderni tendono a privilegiare azioni mirate su specifiche aree, condotte in periodi critici, ossia quelli nei quali quella determinata funzione si sta sviluppando.
Importante, poi, credo sia proprio soffermarsi sui problemi, perché a volte sottolineare a un genitore esclusivamente le potenzialità potrebbe suonare come una “consolazione inutile” e in effetti lo è davvero. Invece è necessario che il clinico accordi ai genitori la necessaria fiducia per ascoltarlo ed esaminare insieme a lui anche tutti i problemi che danno pena e preoccupazione, senza dimenticare che ad oggi – anche se sono sempre di meno – sono ancora in circolazione professionisti che evitano di utilizzare i nomi delle patologie, perché pensano che farlo significherebbe rischiare di indurre un genitore a stigmatizzare il proprio figlio. Siamo insomma ancora di fronte a persone che temono pericoli come quelli di vedere “la patologia e non la persona”, o che il genitore “si preoccupi per il proprio bambino e che ciò non lo mette in condizione di essere un buon genitore”, eccetera eccetera. Questi colleghi, però, spesso dimenticano che se un genitore consulta un esperto, evidentemente lo fa perché è già preoccupato per qualcosa. E dimenticano anche che utilizzare le parole in modo chiaro, magari spiegandone il significato, non confonde un genitore, ma lo proteggerà dalla confusione, quando si sentirà dire cose diverse da diversi clinici e dovrà riuscire – da solo – a capire se queste persone stanno dicendo la stessa cosa con parole diverse, oppure se vogliono dire cose diverse.
A volte, insomma, si dimentica che un genitore è portato a pensare al futuro del proprio figlio, anche perché di questo molto spesso dovrà farsi carico in modo esteso. Perciò parlare di diagnosi, di prognosi, di evoluzione futura, di possibilità e di limiti, orienta e protegge il genitore, perché lo mette in condizione di avere più strumenti per prendere le migliori decisioni, evitando quindi di sopravvalutare o sottovalutare un problema.
Non sempre i genitori riescono a trovare risposte alle domande di chiarimento rispetto a queste difficoltà. A volte ci si imbatte in giustificazioni generiche che fanno riferimento alla differenza di sviluppo del bambino cieco rispetto a quello nato vedente, e alla conseguente difficoltà a valutare gli altri aspetti. In altri casi, viene vagamente citata una situazione di pluriminorazione, quasi questa fosse un’unica condizione patologica. Avere quindi un quadro della situazione è il primo passo per individuare quali siano le aree sulle quali lavorare.
Di solito, dopo un primo periodo di valutazione, si passa ad interventi che non sono focalizzati soltanto su poche ore di generica terapia settimanale. Infatti, sebbene le attività riabilitative – quando sono specifiche – siano importanti, è stato riconosciuto che esse non sono efficaci, se non vengono affiancate da un’attività educativa specifica e appropriata, con degli obiettivi coordinati, realizzata per un congruo numero di ore settimanali. Ciò è faticoso da mettere in pratica, nella situazione attuale, ma non è impossibile».
Quali considerazioni si possono fare rispetto ai servizi in favore di questi bambini?
«Esistono numerosi strumenti legislativi, percepiti però come princìpi astratti, disattesi dalla prassi, perché mancano il livello attuativo organizzativo e gli strumenti finanziari adeguati.
Personalmente lavoro per creare e attuare programmi concreti, che possano essere condivisi e condotti in modo sistematico e personalizzato, unitariamente dalla scuola, dalla sanità e dalla famiglia. E questo è possibile, sebbene comporti il dispendio di un buon numero di ore dedicate alla valutazione, alla personalizzazione dell’intervento, al coordinamento degli operatori e alla verifica dei risultati.
Per altro, la situazione in Italia è estremamente disomogenea. In alcuni casi le famiglie sono seguite da centri di riferimento di carattere regionale, oppure addirittura nazionale, che dipendono dal sistema sanitario. In altri casi sono seguiti da istituzioni di carattere educativo e in altri casi ancora da istituzioni territoriali. Altrove, invece, vi sono associazioni che allestiscono alcuni tipi di servizi in ragione del principio di sussidiarietà, tentando di surrogare alla carenza di alcuni servizi pubblici.
In questo quadro, molte situazioni territoriali vedono dipendere la natura degli interventi dalla preparazione dei professionisti, dalla durata e dalla tipologia delle attività – quasi mai, dunque, da ragioni di specificità o di appropriatezza -, ma, più frequentemente, dalla combinazione tra ciò che il genitore ha cercato, quello che ha potuto trovare e l’esistenza più o meno riconosciuta sul proprio territorio di enti o persone ritenute esperte. In linea di principio, invece, queste famiglie dovrebbero ricevere servizi da parte di enti di tipo sanitario, educativo e sociale, mentre, a parte alcuni contesti che possono indicare buone prassi, si passa da casi di totale assenza istituzionale, nei quali il genitore è lasciato letteralmente da solo con il suo bambino, a situazioni in cui i diversi attori tentano di collaborare.
A volte i genitori assistono disorientati a una specie di “lotta per la supremazia” dell’educazione sulla riabilitazione o viceversa, situazione che spesso è frutto più di un orientamento ideologico che non della considerazione dell’interesse reale del bambino. Mi è capitato infatti di riscontrare talora una vera e propria competizione attorno al bambino, per determinare quale sia l’ente o l’istituzione a dover considerarsi detentrice del potere di guida sulle altre istituzioni, o sugli altri attori. Si sente dire che dovrebbe essere il medico – conoscendo le particolarità derivanti dalle patologie da cui il bambino è affetto – a poter indicare o determinare alcune decisioni. Altrove, invece, si definisce la scuola come l’agenzia realmente centrale, perché l’aspetto educativo viene considerato quello che dovrebbe trainare tutti gli altri, con gli aspetti clinici da ritenere semplicemente come delle eventuali risorse disponibili. In altre situazioni, infine, si ritiene l’aspetto sociale, o psicosociale, come quello più determinante, nel senso che in tale visione la famiglia e la comunità, con le varie reti informali, sono considerate l’elemento all’interno del quale il bambino vive e si evolve, e quindi quello centrale.
A prescindere però dai vari discorsi che si sentono nei convegni, di fatto, in Italia, assistiamo a interventi per lo più paralleli che, in casi fortunati, possono dirsi coordinati, tra le agenzie sanitaria, educativa e sociale. Tante volte, poi, questa “guerra” è sostituita dal balletto delle deleghe alla responsabilità: ciascuna istituzione, infatti, si aspetta che sia l’altra a farsi carico della situazione e in tutto questo, tra affollamenti e desertificazioni, gli scenari variano da luogo a luogo.
In realtà, l’efficacia del modello organizzativo adottato non dipende da quale sia l’istituzione che si fa carico di “guidare”, ma da come funzionano le relazioni tra le varie figure professionali, e da quanto coerenti fra loro sono i comportamenti delle varie persone. Un’unità operativa coordinata da un case manager, ad esempio, è un modello efficace, indipendentemente dal fatto che il capofila sia un ente piuttosto che l’altro.
Ciò che fa quindi la differenza rispetto ai risultati conseguiti sta nella preparazione e nella coerenza di comportamento fra le varie persone e questo indipendentemente dal fatto che esse facciano parte della medesima organizzazione o che vengano pagate dal medesimo capitolo di bilancio.
Non mi pare di tra l’altro di aver riscontrato – anche pensando a ciò che si fa fuori dal nostro Paese – molta differenza di efficacia nei modelli home centered [centrati sulla famiglia, N.d.R.] rispetto a quelli school centered [centrati sulla scuola, N.d.R.] o clinical centered [centrati sulla struttura sanitaria, N.d.R.]. Mi è parso invece di notare – negli interventi efficaci – una grande elasticità nell’allocazione delle varie risorse e della proporzione delle varie tipologie di interventi, in base alle necessità del bambino, del periodo della sua crescita e alle esigenze contingenti.
In Italia, per i bambini con disabilità, si tendono ad adottare modelli preconfezionati di intervento, caratterizzati da un mix di servizi, che sono per così dire standardizzati, secondo uno schema educativo e riabilitativo mutuato da specifiche disabilità-tipo. A prescindere cioè dalle buone intenzioni, di fatto, la quantità di interventi individuali o di ore/uomo di attività diretta, la periodicità delle riunioni di coordinamento e delle visite domiciliari, la frequenza con la quale i diversi operatori possono incontrarsi per coordinarsi o valutare congiuntamente l’andamento del lavoro, tutto questo è predeterminato secondo modelli astratti. Noi invece sappiamo bene che la proporzione tra il numero degli interventi diretti al bambino e quello degli interventi di pianificazione, coordinamento e controllo, devono essere diversi nelle diverse fasi del lavoro e del ciclo di vita. E sappiamo anche che le diverse istituzioni lavorano secondo calendari operativi sfalsati tra di loro, qualche volta incompatibili perché hanno “cicli produttivi” basati su criteri del tutto diversi.
Siamo insomma partiti da considerazioni strettamente legate a un evento, per scivolare a parlare in generale della situazione e del modello di intervento. Sicuramente io non ho una visione sistematica della situazione attuale, ma lavorando nella formazione degli operatori e avendo a che fare anche con genitori provenienti da varie realtà geografiche, posso avere una percezione piuttosto ampia delle particolarità e dei cambiamenti socioeconomici in atto, collegati alla situazione dei bambini con disabilità complesse».
*Psicologa e psicoterapeuta. Esperta nelle problematiche psicologiche, riabilitative ed evolutive delle persone con disabilità. Consulente sul deficit visivo dal 1994, psicoterapeuta dal 1997, ha scritto numerosi articoli e libri. Lavora come psicoterapeuta e consulente di private famiglie e pubbliche istituzioni ed è docente di corsi e seminari di formazione per operatori, insegnanti e riabilitatori.
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