La scelta di promuovere l’inclusione delle persone con disabilità in tutti gli ambiti della vita sociale – che sta alla base delle norme contenute nella Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, recentemente diventata legge dello Stato italiano [Legge 18/09, N.d.R.] – ha una serie di conseguenze che spesso si ignorano, anche perché l’inclusione è un concetto diverso dall’inserimento e dall’integrazione.
Inserimento e integrazione
L’inserimento riconosce il diritto delle persone con disabilità ad avere un posto nella società, ma si limita ad inserirle – appunto – in luoghi spesso separati dalla società (un istituto o una classe speciale, ad esempio) oppure in una situazione passiva, senza ruolo sociale (dare un lavoro senza mansioni e responsabilità); la decisione su dove debbano vivere e come debbano essere trattate non viene presa dalle persone con disabilità o dalle loro famiglie – nel caso non possano rappresentarsi da sole – bensì da altri attori (medici, operatori di istituzioni pubbliche ecc.). L’inserimento, inoltre, è quasi sempre basato su un approccio caritativo e assistenziale.
Per quanto poi riguarda l’integrazione, essa garantisce il rispetto dei diritti all’interno dei luoghi ordinari, senza però modificare le regole e i princìpi di funzionamento della società e delle istituzioni che li accolgono. Vi è dietro a questa impostazione ancora una lettura basata sul modello medico della disabilità (tali persone sono “malate”, “invalide”, “limitate” e la disabilità viene considerata una condizione soggettiva causata dalle minorazioni; e anche: le persone con disabilità vanno tutelate sulla base di “un intervento speciale”, come quello dell’insegnante di sostegno). Prevale insomma l’idea che le persone con disabilità siano “speciali” e vadano sostenute attraverso interventi prevalentemente tecnici. L’integrazione, quindi, non è un riconoscimento pieno di dignità e di legittimità, tant’è vero che si basa sulle risorse economiche disponibili e quindi è soggetto a parametri esterni al diritto. Se non ci sono i soldi, pazienza con i diritti!
L’inclusione, invece, è il concetto che prevale nei documenti internazionali più recenti e in base ad esso la persona con disabilità viene considerata cittadino a pieno titolo e quindi titolare di diritti come tutti gli altri. Viene per altro riconosciuto che la società si è organizzata in maniera tale da creare ostacoli, barriere e discriminazioni, che vanno rimosse e trasformate. La persone con disabilità, dunque, entra nella comunità con pieni poteri, ha il diritto di partecipare alle scelte su come la società si organizza, sulle sue regole e sui princìpi di funzionamento, i quali devono essere riscritti sulla base di tutti i membri della società. Insomma, le persone con disabilità non sono più “ospiti nella società”, ma parte integrante della stessa.
Dietro a questo concetto vi è il modello sociale della disabilità, basato sul rispetto dei diritti umani, che sottolinea le responsabilità della società nel creare condizioni di disabilità. Quest’ultima, infatti, è un rapporto sociale tra le caratteristiche delle persone e la maniera in cui la società stessa ne tiene conto. L’inclusione riconosce la diversità umana e la inserisce all’interno delle regole di funzionamento della società, nella produzione di beni e nell’organizzazione di servizi. Il diritto umano ad essere incluso non dipende infine dalle risorse disponibili, bensì dalla consapevolezza che tutti gli esseri umani hanno i medesimi diritti.
Gli esempi di Pablo e Oscar
Questo quadro culturale di cambiamento – che sarà lungo e complesso – richiede nuove capacità e competenze, per promuovere l’inclusione, da parte delle stesse associazioni di promozione e tutela. Non è un caso che a livello internazionale le strategie di azione del Forum Europeo sulla Disabilità (l’EDF – European Disability Forum) si stiano orientando su campi di azione nuovi.
Un esempio viene dal Progetto EuRADE (European Research Agendas for Disability Equality), finanziato dalla Commissione Europea e coordinato appunto dall’EDF in collaborazione con l’Università inglese di Leeds e quella olandese di Maastricht, volto a verificare il livello di partecipazione delle organizzazioni delle persone con disabilità nell’ambito della ricerca che le riguarda e di valutarne gli attuali contenuti rispetto agli obiettivi previsti dalla Convenzione ONU. Le prospettive future delle nostre società, infatti, sono determinate dai contenuti delle ricerche attuali e quelli tradizionali – concentrati solo sugli aspetti medici di prevenzione della disabilità e cura delle malattie – non bastano più.
Se la disabilità è «il risultato dell’interazione tra persone con menomazioni e barriere comportamentali ed ambientali, che impediscono la loro piena ed effettiva partecipazione alla società su base di uguaglianza con gli altri» (dal Preambolo alla Convenzione ONU), è evidente che si previene la disabilità soprattutto mettendo a disposizione soluzioni che rimuovano barriere e ostacoli, che favoriscano l’eguaglianza di opportunità e promuovano la non discriminazione.
Due esempi ben testimoniano questa nuova prospettiva. Pablo Pineda, spagnolo, si è laureato al Magistero come insegnante. Pablo è il primo laureato d’Europa che abbia la sindrome di Down [se ne legga in questo sito al testo intitolato Non sono più «l’eterno bambino», ora tocca a me insegnare!, disponibile cliccando qui, N.d.R.]. Il primo pensiero che ci viene in mente («ma come ha fatto?») è legittimo o è il frutto di un pregiudizio? In altre parole: quanti studenti con la sindrome di Down avrebbero potuto conseguire lo stesso risultato, se avessero avuto un ambiente scolastico inclusivo e appropriati strumenti educativi di sostegno? Pablo infatti dimostra che non vi è corrispondenza tra la minorazione intellettiva e la capacità di apprendimento e nelle sue interviste sottolinea che gli è stata offerta la possibilità di studiare, nulla di più…
L’altro esempio è quello di Oscar Pistorius, l’atleta sudafricano che corre con particolari protesi in carbonio ad ambedue le gambe. Anche in questo caso il paradosso colpisce. Chi avrebbe risposto qualche anno fa in modo positivo alla domanda: «Si può essere competitivo nella corsa con ambedue gli arti amputati?».
Pistorius mette in evidenza che la condizione di limitazione funzionale può essere superata attraverso appropriati ausilii. La domanda, quindi, nasconde un pregiudizio, che sempre e comunque sia impossibile superare le limitazioni funzionali del corpo. In realtà oggi diviene più “disabile” nel leggere e scrivere il bambino di un Paese povero che non va a scuola, rispetto al bambino cieco che legge e scrive attraverso un computer con l’ausilio di una sintesi vocale. La ricerca, quindi, diventa strategica per superare la disabilità ed è perciò importante orientarla a studiare e a sviluppare nuovi strumenti tecnici e culturali che sostengano l’inclusione delle persone con disabilità.
In tale prospettiva si aprono inoltre campi di applicazione di cui può beneficiare tutta la società: pensiamo al telecomando, strumento presente in tutte le case e applicato a vari elettrodomestici, che è stato realizzato sulla base di una ricerca che consentisse ad una persona tetraplegica di comandare a distanza i canali del televisore. La stessa e-mail – lo strumento comunicativo a distanza più diffuso al mondo – è nata da una ricerca per permettere a due persone sorde di comunicare a distanza.
EuRADE ha realizzato dunque un’indagine su quali ambiti di ricerca dovrebbero essere esplorati per consentire una piena inclusione delle persone con disabilità, tutti settori che l’EDF vorrebbe fossero finanziati dal prossimo Programma Quadro Europeo, il programma comunitario che finanzia le attività strategiche di ricerca per l’Europa.
Nuove professioni all’insegna dell’abilitazione
Come conseguenza di questo nuovo approccio inclusivo, un processo di cambiamento sta avvenendo anche nell’ambito delle nuove professioni indirizzate alle persone con disabilità. Fino a trent’anni fa, infatti, le professioni che si occupavano di noi si limitavano ad ambiti sanitari (medici specialistici, terapisti, massoterapisti) o a operatori di strutture segreganti che alla componente medica aggiungevano quella di custodia, come i portantini (parola dalla radice stessa carica di significati negativi: che “portavano” cioè le persone le quali non potevano o non dovevano spostarsi da sole). All’epoca, inoltre, le persone con disabilità potevano essere solo oggetto di attività professionali gestite da altri. La stessa legge sul collocamento obbligatorio di allora, la vecchia 482/68, ci assegnava solo posti esecutivi con bassa qualifica professionale (custodi, uscieri ecc.). Ricordo che al primo convegno della mia vita – nel lontano 1980 – dedicato proprio alla riforma di questa legge, un medico dell’Istituto Mario Negri di Milano affermò che «persone in sedia a rotelle come Griffo erano considerate incollocabili fino a dieci anni prima»…
L’inclusione lavorativa, dunque, che la successiva Legge 68/99 ha reso possibile attraverso il collocamento mirato (la persona giusta al posto di lavoro appropriato), ha consentito a tante persone con disabilità di svolgere lavori qualificati, prima impensabili. Nello stesso tempo la necessità di sostenere i nuovi bisogni dell’inclusione ha prodotto anche nuove figure professionali: gli operatori dei servizi informahandicap, i tecnici della manutenzione delle sedie a rotelle e degli ausili, i consulenti dei centri per la vita indipendente, solo per fare alcuni esempi. E stanno cambiando anche le stesse figure professionali che si occupano delle persone con disabilità: l’assistente personale, infatti, è differente dalla figura dell’assistente domiciliare, così come il terapista occupazionale è diverso da quello della riabilitazione, senza dimenticare il nascente disability manager e altro ancora.
Si tratta di un processo di cambiamento profondo, anche se non abbastanza percepito. La Convenzione lo esplicita chiaramente all’articolo 26 (Abilitazione e riabilitazione), dove distingue due azioni – la riabilitazione e l’abilitazione – e sottolinea che gli Stati devono organizzare, rafforzare e sviluppare «servizi e programmi complessivi per l’abilitazione e la riabilitazione, in particolare nei settori della sanità, dell’occupazione, dell’istruzione e dei servizi sociali». In sostanza, la riabilitazione è il recupero di una funzionalità perduta del corpo, mentre l’abilitazione è la “capacitazione” di una persona a svolgere una qualsiasi attività partendo dalle sue caratteristiche. La prima sottolinea la minorazione, “accanendosi” a guarirla, la seconda la riconosce come parte di una persona cui insegna a svolgere le attività che interessano, senza pretendere di recuperare funzionalità perdute e irrecuperabili, ma sviluppando capacità compatibili con la stessa minorazione, anche attraverso ausilii e sostegni.
Il miglior uso della sedia a rotelle
Questa profonda rivoluzione culturale si misura quando si analizza la coppia di concetti di impoverimento/empowerment e riabilitazione/abilitazione. Infatti, i fattori sociali e ambientali – comprendenti barriere, ostacoli e discriminazioni – possono produrre un impoverimento delle capacità e delle performance delle persone con disabilità, per cui intervenire per consentire di recuperare la piena cittadinanza, in uguaglianza con gli altri cittadini, comporta un’azione di empowerment [rafforzamento delle proprie consapevolezze e capacità, N.d.R.] delle persone con disabilità stesse e delle loro famiglie (quando sono minori o non possono rappresentarsi da sole), per dare loro nuove competenze e abilità e nuovi poteri decisionali sulla loro vita.
In tal senso, allora, gli interventi sulla persona non possono limitarsi ad azioni riabilitative – finalizzate cioè al recupero funzionale del corpo della persona sulla base di un modello astratto di salute (ad esempio il recupero della stazione eretta per una persona con lesione midollare) – bensì devono intervenire con appropriatezza, rispettando la diversità delle caratteristiche della persona, con azioni di abilitazione, in altre parole garantendo – tornando all’esempio precedente – il miglior uso della sedia a rotelle per una persona mielolesa.
L’obiettivo, quindi, non è più quello di guarire, bensì di sostenere la vita indipendente e l’inclusione nella comunità (articolo 19 della Convenzione); e non è più quello di offrire ausili, ma di garantire la mobilità personale (articolo 20).
Chiaramente questa impostazione trasforma e arricchisce di contenuti innovativi l’idea di presa in carico globale: la Convenzione, infatti, riconosce «il diritto di tutte le persone con disabilità a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre»; a tale scopo gli Stati firmatari della Convenzione «prenderanno misure efficaci e appropriate al fine di facilitare il pieno godimento […] di tale diritto e la piena inclusione e partecipazione all’interno della comunità, anche assicurando che […] le persone con disabilità abbiano la possibilità di scegliere, su base di uguaglianza con gli altri, il proprio luogo di residenza e dove e con chi vivere; […] abbiano accesso ad una serie di servizi a domicilio o residenziali e di altri servizi sociali di sostegno, compresa l’assistenza personale necessaria per consentire loro di vivere nella società e di inserirvisi e impedire che siano isolate o vittime di segregazione»; infine, che «i servizi e le strutture sociali destinate a tutta la popolazione siano messe a disposizione, su base di uguaglianza con gli altri, alle persone con disabilità e siano adattate ai loro bisogni» (articolo 19 della Convenzione).
Far rispettare le diversità umane
Ma la società ha strutturato servizi di abilitazione e di empowerment verso le persone con disabilità? Ha gli strumenti e le conoscenze adatte per sostenere i processi di inclusione? Purtroppo no, perché nei secoli in cui ci ha esclusi e segregati ha perduto la capacità di rispettare i diritti umani delle persone con disabilità. Abbiamo perciò bisogno di una scienza che ci rispetti per come siamo, che valorizzi le nostre caratteristiche e che ci abiliti a vivere in società con uguaglianza di opportunità e non discriminazione rispetto agli altri cittadini.
Comprendere il senso dell’inclusione per le persone con disabilità significa saper percorrere i nuovi sentieri della ricerca e delle competenze innovative. Non solo dobbiamo rivendicare il nostro ruolo nella società, negli stessi luoghi e spazi dove vivono tutte le persone, ma anche dobbiamo essere capaci di far rispettare le diversità umane, di cui le persone con disabilità sono parte (articolo 3 della Convenzione), elaborando soluzioni e strumenti adeguati.
Se l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) sottolinea che la disabilità è un’esperienza che nell’arco di una vita ogni persona vivrà, la sfida dell’inclusione delle persone con disabilità non riguarda solo una piccola minoranza, ma l’intero genere umano.
*Componente dell’Esecutivo Mondiale di DPI (Disabled Peoples’ International).