La crescita della spesa per gli emolumenti di invalidità civile scaturisce in gran parte dall’incapacità di promuovere programmi idonei a sostenere e a rafforzare l’inserimento sul mercato del lavoro di persone anche solo potenzialmente produttive, creando in tal modo una fonte di inefficienza, sia da un punto di vista economico che sociale.
Da un punto di vista economico, infatti, si generano inutili sprechi di risorse e costi aggiuntivi per alimentare un sistema assistenzialista che non promuove la produttività di persone a vario titolo svantaggiate. Da un punto di vista sociale, invece, è palese come la promozione all’accesso al lavoro sia condizione necessaria per l’affermazione della propria identità e dignità umana. Sarebbe necessario, dunque, che le istituzioni, a tutti i livelli di governo, si adoperassero per accrescere l’inclusione sociale e la diretta partecipazione delle persone con disabilità.
Per quanto riguarda la normativa, l’Italia viene annoverata tra i Paesi più avanzati nel campo dell’affermazione dei diritti delle persone con disabilità. Il nostro ordinamento, infatti, già con la Legge quadro 104/92 e con la Legge 68/99 (Norme per il diritto al lavoro dei disabili), ha inteso garantire il pieno rispetto della dignità e i diritti di libertà e autonomia delle persone con disabilità e successivamente, con la Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, entrata a far parte dell’ordinamento giuridico italiano tramite la Legge 18/09, vi è l’impegno – a livello internazionale – a garantire e promuovere la piena realizzazione di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali per tutte le persone con disabilità, senza discriminazioni di alcun tipo. Ma le leggi da sole non bastano e troppo spesso restano “lettera morta”.
Un lavoro dignitoso è un diritto di ogni persona e consente di rispondere a una molteplicità di bisogni che incidono direttamente sulla qualità del progetto di vita: dalla sicurezza del reddito all’autorealizzazione di sé. L’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati, riconosciuto e sostenuto dall’Unione Europea con il Trattato di Lisbona, oltre che produrre vantaggi a favore delle comunità in termini di coesione sociale e qualità della vita, consente un risparmio di risorse pubbliche investite in servizi di cura e di contenimento che ne fanno uno dei migliori esempi di politiche sociali, passando da politiche passive a politiche attive di inclusione.
Su un altro versante si può dire anche che la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – approvata e proclamata il 10 dicembre 1948 dall’Assemblea delle Nazioni Unite – sia uno dei documenti più ignorati e inapplicati che la storia ricordi. Essa rimane però uno dei momenti più alti espressi dall’ONU; basta citarne l’articolo 25: «Ogni individuo ha diritto ad un tenor di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia […]; e ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà».
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