Alla fine dell’Ottocento, durante la colonizzazione dell’Africa da parte dell’Europa, alla Spagna venne assegnato il territorio del Sahara Occidentale, che da allora fu noto anche come Sahara Spagnolo.
A metà degli anni Settanta del Novecento, poi, dopo la caduta del dittatore Francisco Franco, la Spagna non indisse un referendum di autodeterminazione per la popolazione autoctona Saharawi [è usata anche la dicitura Sahrawi, N.d.R.], ma preferì vendere il territorio a Marocco e Mauritania, gli Stati confinanti.
Tale atto diede origine ad una guerra per l’indipendenza da parte del Movimento di Liberazione dei Saharawi (Fronte Polisario) contro gli invasori. Fu in quell’occasione che parte della popolazione scappò per rifugiarsi nella vicina Algeria che le concesse uno spazio per allestire un campo profughi dove tuttora, dopo più di trent’anni, abita.
Nel 1979 la Mauritania fu sconfitta, mentre il Marocco occupa ancor oggi il Sahara Occidentale, nonostante che la Corte dell’Aja ne abbia dichiarato la non sovranità sul territorio. Inoltre, grazie all’intervento dell’ONU, le due parti contendenti nel 1991 hanno firmato un piano di pace in vista dell’agognato referendum per l’autodeterminazione.
Cinzia Terzi, presidente dell’associazione Jaima Sahrawi (che in arabo significa “tenda tradizionale” ovvero la “casa dei Saharawi”), ci racconta che dal 1991 il Marocco tergiversa e non ha ancora fissato una data per il referendum.
«Ovviamente – spiega Terzi – i motivi di tale reticenza sono essenzialmente economici, visto che il Sahara Occidentale è il primo produttore mondiale di fosfati, che il mare su cui si affaccia è pescosissimo e che il suo deserto è ricco di petrolio e rame. C’è da aggiungere che il re marocchino, che si proclama diretto discendente di Maometto, ha in mente di creare un grande regno i cui confini andrebbero ben oltre quelli del Sahara Occidentale».
Come vivono i Saharawi
Nel 1976 le circa 200.000 persone che vivono nei campi profughi in Algeria (la cifra è approssimativa perché non esistono censimenti; si calcoli inoltre che altri 300.000 Saharawi vivono nei Paesi confinanti, Canarie comprese, oppure sono rimasti nel Sahara occupato) hanno proclamato di appartenere alla RADS, la Repubblica Araba Saharawi Democratica in esilio e si sono strutturati da un punto di vista politico e amministrativo come un vero e proprio Stato.
I quattro campi profughi in cui sono raggruppati si chiamano come altrettante province esistenti nel Sahara Occidentale. Per loro vige il divieto di entrare in territorio algerino e d’altra parte nemmeno gli abitanti dell’Algeria possono entrare nel territorio assegnato ai profughi in gestione autonoma. Li separa – da quella che considerano come la loro “casa” – un muro di 2.700 chilometri innalzato dal Marocco che l’ha costellato di 9 milioni di mine.
«Anche quando infine si arriverà al referendum – commenta Cinzia Terzi – il problema delle mine sarà irrisolvibile perché sono state depositate senza mappatura e molte sono di plastica, insensibili ai metal detector».
Disabili nei campi profughi
«È praticamente impossibile – spiega Terzi – sapere quante sono le persone con disabilità all’interno dei quattro campi profughi. Innanzitutto occorre chiederci che cosa vuol dire per noi disabilità e che cosa intendono loro. Inoltre, le condizioni di degrado sono tali per cui un bambino nato con una piccola malformazione, da noi facilmente curabile, lì è destinato a diventare un disabile anche grave. E i disabili gravi non hanno molte chances di sopravvivere. Piuttosto, si devono considerare le disabilità di media entità, diffuse anche tra i bambini. Su queste è importante intervenire per aiutare le famiglie. È stato istituito a tal proposito un Centro di Educazione Speciale per tutti i bambini con disabilità che possono raggiungerlo a piedi (e quindi sono quanto meno deambulanti), il cui scopo è quello di rendere i ragazzi il più possibile autonomi nella quotidianità, soprattutto perché il processo culturale dell’integrazione sociale non è ancora avvenuto e chi non si comporta come gli altri è facilmente emarginato».
Progetto per assistenti domiciliari a Smara
Uno dei quattro campi profughi si chiama Smara e con esso – nel novembre del 2000 – il Comune di Reggio Emilia ha sottoscritto un patto di amicizia.
Da allora i rapporti tra le due parti si sono consolidati grazie a numerose iniziative di collaborazione e solidarietà sostenute dalle istituzioni e dalle associazioni private della città emiliana.
In particolare, l’associazione Jaima Sahrawi ha proposto qualche anno fa un progetto per la formazione di personale Saharawi operante nel settore della disabilità all’interno dei campi profughi, con specializzazione nelle visite domiciliari e con l’acquisita capacità di costruire progressivamente una rete sociale di coordinamento tra famiglie, servizi e istituzioni.
Al progetto collaborano la Regione Emilia Romagna, la Provincia di Reggio Emilia, il comitato Solidarietà=Pace dei Comuni del distretto di Scandiano e la cooperativa sociale Zora, anch’essa di Scandiano.
«Le donne Saharawi gestiscono le questioni sociali della loro popolazione», racconta Cinzia Terzi. «Sono state loro, costituite nell’Unione Nazionale Donne Saharawi, a chiederci di intervenire. In particolare, la nostra mediatrice è Mahfouda Rahal, sottosegretario agli Affari Sociali della RADS. Abbiamo allora chiamato in Italia quattro donne di Smara per sei mesi di formazione, continuando poi il lavoro presso il loro campo profughi. A quel punto altre dieci donne, coinvolte dalle prime quattro, si sono aggiunte al percorso».
Non sono certo passaggi scontati!
Cinzia Terzi ci spiega che questi non sono certo passaggi scontati. Convincere infatti le donne «dell’utilità sociale della formazione nell’ambito della disabilità non è facile. E pensavamo anche di incontrare resistenze da parte delle famiglie nelle quali le operatrici si introducevano. Invece ci siamo stupiti: i miglioramenti del familiare disabile – che prima era lasciato a se stesso e ora, anche con accorgimenti minimi, ha una qualità della vita nettamente migliore – hanno reso felice tutta la famiglia. Soprattutto, queste persone non si sentono più abbandonate a se stesse».
Tra il 2006 e il 2007 si realizzerà la terza fase del progetto che prevede ulteriori incontri di formazione e supervisione in aula per dare fiducia alle operatrici nel lavoro e nel rapporto con le famiglie e perché siano effettivamente preparate a intervenire.
Intanto, la Regione Emilia Romagna, principale finanziatrice del progetto, sta già discutendo gli stanziamenti per una prosecuzione del percorso formativo oltre la scadenza.
Associazione Jaima Sahrawi, tel. e fax 0522 430307
jaimasahrawi@libero.it.
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