Più che il concetto, in questi ultimi anni è stato sottoposto a critiche il termine di integrazione scolastica degli alunni con disabilità: la contestazione di esso, anzi, è stata vista proprio in funzione di un approfondimento del concetto stesso.
Va tuttavia sempre ricordato che, quando verso i primi anni Settanta cominciammo a parlare di integrazione, intendevamo contrapporre tale termine – e il concetto ad esso sotteso – a quanto era avvenuto verso la fine degli anni Sessanta, con l’immissione tumultuosa e non preparata organizzativamente e didatticamente di migliaia di alunni con disabilità nelle scuole elementari e che definimmo inserimento, talora anche “selvaggio”.
Per noi, dunque, integrazione stava proprio a significare il contrario di inserimento, cioè l’ingresso preparato degli alunni con disabilità nelle classi comuni, in modo che riuscissero a superare l’handicap con la coeducazione assieme ai compagni non disabili e che l’organizzazione della scuola si adattasse ad accoglierli convenientemente.
Con l’andar del tempo, però, la prassi dell’integrazione venne sempre più focalizzandosi sulle modalità di adattamento degli alunni con disabilità alla classe, tramite la presenza degli insegnanti per il sostegno, degli assistenti per l’autonomia e la comunicazione, di sussidi e ausili tecnologici e così via.
Si è puntato quindi più ad una forma di inserimento qualificato, che non ad una vera integrazione, come la intendevamo inizialmente. E così è stato facile cominciare a contestare questa modalità di pseudointegrazione, recuperando le stesse critiche all’integrazione degli oltranzisti di allora che avevano coniato lo slogan spregiativo di «integrati nel sistema», per intendere che l’integrazione avveniva a senso unico, cioè facendo adattare gli esclusi nel “sistema”, senza ottenere invece la modifica di quest’ultimo.
Oggi è comparso all’orizzonte culturale il termine anglosassone inclusion, che sta soppiantando la parola italiana integrazione. Invero la resa italiana di tale termine con inclusione letteralmente significa “chiudere dentro” e quindi è decisamente più vicina al termine inserimento che avevamo abbandonato per quello decisamente più significativo di integrazione, cioè “rendere integro”. Ma se vogliamo dare al termine inclusione il senso originario di integrazione, convenzionalmente possiamo pure starci, purché si recuperi il valore biunivoco di reciproco influsso fra singola persona con disabilità e società.
Quali alunni integrare?
Originariamente la Legge 118/71 consentiva l’inserimento dei soli alunni con disabilità fisica non grave. Con la Legge 517/77 si è pervenuti invece all’integrazione di tutte le persone con disabilità, qualunque fosse la loro minorazione e la gravità di essa.
Allora mancavano però all’appello ancora persone con disabilità particolari che solo negli ultimi sei o sette anni hanno cominciato a frequentare le scuole anche superiori. Mi riferisco agli alunni con grave ritardo mentale, con cerebrolesioni, con autismo.
Anche per questi studenti si applicano le norme volute inizialmente per gli alunni con minore complessità e la scuola, sia pure con difficoltà, impreparazione e contraddizioni, si sta attrezzando anche per la loro accoglienza, sforzandosi di farlo a livelli di qualità.
E tuttavia i docenti e gli esperti dei servizi sociosanitari ci documentano sempre più frequentemente che nelle scuole c’è un crescente numero di alunni con difficoltà di apprendimento non derivanti da minorazioni «stabilizzate o progressive» e quindi non certificabili ai sensi dell’articolo 3, comma 3 della Legge 104/92, ora ripreso dal DPCM 185/2006.
A questi alunni – con dislessia, disgrafia, discalculia, con disagio esistenziale, culturale, familiare o socioambientale – che ormai raggiungono circa la percentuale del 20% rispetto al 2% degli alunni con disabilità certificata, l’organizzazione istituzionale e specie quella scolastica non riservano particolari risorse, come avviene invece per gli alunni certificati con disabilità.
Eppure talora essi creano problemi molto maggiori nella scuola degli altri, essendo anch’essi portatori di bisogni educativi speciali.
Una revisione radicale della teoria dell’integrazione scolastica dovrebbe dunque inserire anche queste persone fra quante hanno bisogno di specifici interventi didattici e di taluni servizi territoriali, senza per altro dimenticare il rischio che si “spalmino” su questi bisogni le risorse sino ad oggi riservate per legge esclusivamente agli alunni con disabilità certificata.
Ritengo dunque che sia la scuola a doversi attrezzare al meglio – come chiedeva a suo tempo don Milani – ma questo ancora la scuola non lo fa.
In quale scuola?
La scuola di oggi è ben diversa da quella tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Ottanta che avviò il processo d’integrazione. Infatti, la spinta propulsiva, ideale, culturale e talora pure ideologica di allora è venuta meno, sia per il naturale evolversi dei fatti della vita, sia per il mutato clima politico e socioculturale, sia per il normale ricambio generazionale.
Allora ci battemmo per ottenere le norme; oggi chi opera trova le norme belle e fatte come cosa normale e routinaria. Inoltre è mutata anche l’agenda politica. Oggi l’integrazione degli alunni con disabilità è “fuori moda”, soppiantata da fenomeni nuovi come l’integrazione degli alunni stranieri che nel giro di pochi anni hanno raggiunto e superato di quasi il triplo il numero degli alunni con disabilità certificata, attestati intorno ai 180-190.000.
Al centro dell’attenzione politica vi sono poi anche i casi di cosiddetto “bullismo” e si ritiene che ormai i problemi organizzativi dell’integrazione degli alunni con disabilità siano stati definitivamente risolti, senza pensare invece che essi continuano a sussistere.
Altro dato da rilevare è che con il crescere del numero degli insegnanti per il sostegno, specializzati e non, l’impegno dei docenti curricolari si è venuto sempre più riducendo, determinando di fatto una delega ai primi, sui quali si abbatte impietoso il precariato, che, sommandosi a retribuzioni inferiori alle aspettative poste durante gli studi svolti, determina sfiducia, incertezza per il futuro e scarsa tensione di coinvolgimento.
Con quali modalità?
La scuola in cui tali docenti si trovano ad operare offre sempre meno certezze, tra riforme e controriforme sempre incomplete, decentramento e autonomia incompiuti, tra conflitti di attribuzioni di competenze fra diversi soggetti istituzionali, centrali e locali.
Tutto ciò certo non giova ad un recupero e all’innovazione della cultura dell’integrazione. La ricerca didattica sul campo, che aveva individuato le nuove modalità di scolarizzazione degli alunni con disabilità, non è più così diffusa e l’Università, tranne che in rare ecezioni, offre una formazione prevalentemente libresca, se non addirittura quasi solo on line, senza un contatto diretto con gli alunni in fase di tirocinio.
Per quanto poi riguarda la formazione iniziale dei docenti e quindi dei dirigenti scolastici, essa non prevede nulla o quasi che riguardi la pedagogia speciale, la didattica specifica per l’integrazione, le sperimentazioni didattiche e l’organizzazione a sostegno dell’integrazione scolastica.
E ancora, l’aggiornamento in servizio dei docenti, dopo l’assurda norma del Contratto Collettivo del 2003, che lo definisce come un «diritto», ma non anche un «dovere» del personale, si è ridotto ad una scelta puramente opzionale e volontaristica, che certamente non giova al miglioramento della scuola dall’interno, cioè tramite la riscoperta del ruolo fondamentale di una nuova didattica “cooperativa”, svilendo così sempre più gli interventi per l’integrazione degli alunni con disabilità coi compagni non disabili e non consentendo di trovare un giusto equilibrio per migliorare il livello di eccellenza dell’insegnamento-apprendimento per gli alunni cosiddetti “normodotati” e per quelli con difficoltà di apprendimento.
Occorre dunque, in definitiva, cercare di recuperare la tensione morale e culturale degli anni delle riforme a partire dalla fine degli anni Sessanta.
Quanti hanno accusato la Lettera ad una professoressa della scuola di Barbiana come causa del rilassamento della scuola italiana, non hanno neppure letto l’indice di quel libro rivoluzionario che voleva che nessuno fosse bocciato perché pretendeva che la scuola nella sua complessità si impegnasse allo spasimo per far recuperare agli ultimi livelli di apprendimento tali da costringere l’istituzione a non bocciarli.
E l’integrazione degli alunni con disabilità fu il primo tentativo dal basso – seguito dalle Istituzioni, tramite la normativa – di tradurre in pratica, generalizzandoli, quegli orientamenti.
Si avrà a questo punto la forza culturale e politica, oggi, di riprendere e sviluppare quegli orientamenti, adottandoli in una società globalizzata anche nei mezzi e nei modi di insegnamento-apprendimento?
*Vicepresidente della FISH (Federazione Italiana per il Superamento dell’Handicap). Tale testo è stato per la prima volta pubblicato dal sito Superabile.it, che ringraziamo per la gentile concessione.