Vi sono due aspetti che vanno considerati con grande attenzione, entrambi presenti nelle relazioni di aiuto, e quindi in un progetto di vita, che è quello di cui dobbiamo e vogliamo occuparci in questa sede.
Il primo è il rischio che nella relazione di aiuto si desideri avere una certa propensione verso l’onnipotenza che modelli la vita dell’altro e non accetti i limiti che sono tanto nostri quanto dell’altro, non accetti i dati di realtà ed esiga un rimodellamento al di là del possibile. Questo è il preliminare di un senso di frustrazione che è sempre il rischio forte nelle relazioni di aiuto.
E d’altra parte, dicendo questo, non vorremmo inclinare verso un’accettazione dei dati di realtà senza accogliere la sfida del possibile. Si tratta quindi di un punto delicato su cui occorre fare sempre una grande attenzione; è per questo che adottiamo più volentieri il criterio metodologico del bricolage, che fa riferimento ad un grande studioso e Premio Nobel per la Medicina come François Jacob, pensando che non siamo noi a fare la realtà, ma è la realtà con le sue imprevedibilità che ci può mettere alla prova ed offrire occasioni che non credevamo possibili. Noi dobbiamo osare affrontare situazioni varie e aspettarci – e soprattutto essere attenti – che le varie occasioni permettano di vedere quello che non ci aspettavamo.
Il secondo aspetto è quello legato all’autorealizzazione: ciascuno autorealizza la propria esistenza e per questo ha bisogno di non concentrare tutto su se stesso, ma deve aprirsi agli altri; e questo è il punto più delicato che fa i conti con quell’assistenzialismo così capace di travestirsi, un vero e proprio virus che impedisce anche a noi di accettare le dinamiche, ma che spesso cala come “una gabbia” sull’altro e fa sì che noi diamo per scontato che l’altro non possa, non sappia, non abbia nessuna possibilità di sviluppare nulla se non quelle abitudini ripetitive che riteniamo lo rendano più sicuro, più tranquillo, mentre rendono anche più tranquilli noi, più sicuri noi.
Ma questa sicurezza a volte va abbandonata; per affidarci a che cosa? Alla progettazione.
Il termine progetto è quantomai importante e lo diventa tanto più se lo facciamo entrare nel territorio vasto dell’educazione permanente, quindi non di un’educazione modellata sul rapporto adulto-bambino, ma di persone adulte che si autoeducano e si educano reciprocamente.
Sul terreno dell’educazione, la progettazione è dialogica, non può ridurre l’altro ad “oggetto di progettazione”, deve avviare, mantenere, procedere interpellando l’altro. E questo interpellare l’altro non è un modo solo, non è mettersi a tavolino a ragionare, discutere, ma è anche fare insieme, provare, cercare, spiare – se così si può dire – le reazioni dell’altro nei contesti e fare anche attenzione alle nostre reazioni, che possono essere importanti per capire meglio l’altro. I mediatori sono importanti.
La disabilità complessa
Quando sentiamo indicare un soggetto con l’espressione “handicappato grave”, dovremmo in qualche modo diffidare, perché all’interno di questa espressione vi sono differenze notevoli che non possono essere unificate tra loro se non a partire da un presupposto: non entrano facilmente nelle conoscenze che abbiamo già.
“Handicappato grave” potrebbe essere sostituito con un’espressione capace di richiamare un dovere di conoscenza approfondita e in cui il termine adatto richiami la complessità, per indicare un disabile con una disabilità complessa. Evocando ed invocando la disabilità complessa, chiediamo di poter affrontare questa realtà con diverse competenze, che devono organizzarsi tra loro.
Pensiamo che sia necessario avere un progetto. E capiamo meglio cosa vuol dire, se ci riferiamo ad una situazione di tipo complesso quando manca un progetto o, peggio, quando non si cerca o si rinuncia ad un progetto. Lo chiamiamo, nel gergo di nostra appartenenza, assistenzialismo; ed è il rischio costante: è la stagnazione, il considerare che tutto è stato già fatto o tentato, e non vi sia altro da fare se non tenere in un minimo di dignità una persona, senza più ripensare e senza osservare.
Quando manca una voglia di progetto, uno stimolo a costruire un progetto, le relazioni si riducono a quella brutta parola che è manutenzione: cercare cioè di mantenere in un ordine ormai acquisito una situazione.
Un progetto per una persona, un soggetto che ha una disabilità complessa, ha bisogno certamente di essere valutato in termini di strumenti. ma anche di rapportarsi alla situazione che viene osservata. E allora il progetto consiste non tanto in proposte e soluzioni quanto in due elementi che si intrecciano tra loro e che sono collegati all’osservare per agire e all’agire osservando, due elementi che potremmo riassumere in questi termini: accumulo di conoscenze e importanza del piccolo e particolareggiato.
In realtà, dunque, sono tre i punti di progetto che mi sembrano necessari:
– osservare per agire e agire osservando (non dare per scontato; non considerare che ciò che abbiamo visto sarà quello che continueremo a vedere…);
– accumulo di conoscenze;
– importanza del piccolo e particolareggiato.
In anni passati, ma non di molto, vi era una quasi certezza: chi veniva indicato come “handicappato grave” era incontrato da tecnici specialisti molto meno – in termini di tempo dedicato – di chi aveva delle disabilità “consuete”. Abbiamo testimonianze dirette di tecnici specialisti di valore che di fronte ad una situazione che definiamo a diagnosi complessa, ritenevano, in coscienza e buona fede, di poter dire con la massima franchezza che, avendo già esaminato quel soggetto in un tempo quasi remoto, non era necessario riesaminarlo, con la convinzione profonda che una situazione definita “grave” non avesse alcuna necessità di tempo da mettere a disposizione. Non vi era granché da fare.
Nel 2002 l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha dichiarato questo rischio per le situazioni di malattie o situazioni particolarmente acute, con le seguenti parole: «I servizi sanitari sono organizzati secondo un modello di cure acute ed episodiche. Oggi questo modello non è in grado di rispondere ai bisogni di molti malati. Una diminuzione esponenziale delle malattie infettive e un aumento delle malattie croniche sottolinea la discrepanza tra i bisogni sanitari e l’organizzazione dei servizi […]. Le condizioni croniche richiedono che le persone apportino cambiamenti ai propri stili di vita e gli stili di vita non si possono cambiare con i medicinali. Dato che le condizioni croniche richiedono un cambiamento dei comportamenti e degli stili di vita, dobbiamo acquisire una maggiore attenzione verso il ruolo e la responsabilità che la persona deve avere verso la propria cura.
Accettare un ruolo attivo dei clienti dei servizi sanitari richiede un cambiamento radicale nel modo con cui organizziamo i servizi sanitari!» (OMS, Innovative Care for Chronic Conditions, citato in S. Deepak, Coinvolgere il paziente, in «Amici dei lebbrosi», Bologna, AIFO, 2006).
Siccome operiamo in questo settore da diversi anni, ci è capitato di incontrare quegli stessi soggetti ormai cresciuti e di trovarli in condizione radicalmente cambiata; e cambiata da cosa? Da conoscenze più precise che non erano tali da poter assicurare delle trasformazioni magiche, ma che permettevano di accostare risorse ritenute in precedenza assolutamente impossibili, non adatte, o in parte venute alla luce nel frattempo grazie alle tecnologie. Ma le tecnologie non avrebbero mai incontrato quelle situazioni, se fossero state destinate all’esclusione definitiva e non avessero mantenuto una dinamica inclusiva.
A partire dalle vicende di Victor, il suavage de l’Aveyron [ci si riferisce alla storia accaduta in Francia, nell’Aveyron appunto, alla fine del Settecento, riguardante il cosiddetto “ragazzo selvaggio” Victor. Se ne può leggere, cliccando qui, N.d.R.], e di Jean-Marc-Gaspard Itard, il suo educatore, sono sempre gli educatori degli “anormali” che hanno fatto progredire la pedagogia e la didattica, a beneficio degli altri. I lavori degli educatori degli “anormali” consistono nella scomposizione delle conoscenze per capire nello stesso tempo dall’interno quello che possono trasmettere perché l’altro funzioni con la sua intelligenza (Cfr. Ph. Meirieu, Lettre à un jeune professeur, Issy-les-Moulineaux, esf éd., 2005, pp. 17-18).
Gli sguardi multipli
Abbiamo avuto l’impressione che quella definizione di “grave” rischiasse di permettere la collocazione “altrove” di soggetti. Gli stessi che è necessario poter avere la possibilità di continuare ad incontrare con sguardi multipli. Questo significa poter permettere loro di essere accostati da coetanei in condizioni di normalità, da insegnanti preparati, e anche non preparati sullo specifico, e certamente – li citiamo solo adesso ma è chiaro che li consideravamo già un po’ scontati – dai familiari e da tanti altri soggetti che si può immaginare vivano attorno a chi può vivere una vita diversa non nell’esclusione, ma nella dinamica dell’inclusione.
Chi rimpiange le classi speciali ritenendo che un soggetto considerato grave avrebbe potuto esprimere meglio la sua situazione in un contesto più protetto, ci indica qualcosa che non va eliminato e considerato con negatività. Aiuta invece a capire come alcune delle possibilità date nelle buone classi speciali – non nelle pessime classi speciali che purtroppo esistevano – potrebbero essere continuate. Ma riteniamo che questo non significhi aver bisogno di ricostruire le classi speciali; piuttosto di integrare quelle pratiche, e quelle tecniche, nelle classi ordinarie – se parliamo della scuola – e nella vita ordinaria.
Ci sembra importante capire che chi invoca le classi speciali dice qualcosa di utile, ma con indicazioni che rivelano disinformazione. Ci permettiamo di ritenere che ciò nasca da una conoscenza forse ferma ad una certa situazione storica e non più capace di scegliere quelle stesse positività, proponendole in un contesto di integrazione o di inclusione.
Evitiamo quindi uno schieramento negativo in maniera totale: consideriamo e interpretiamo quelle indicazioni come materia da riprendere e riformulare in un contesto di integrazione. E vorremmo che questo fosse capito bene. Ci affidiamo ad una certa argomentazione che vorremmo fosse completata dalle possibilità delle diverse competenze per arricchirla.
Riteniamo di poter partire da un’espressione che non sempre è tale da poter essere utilizzata con disinvoltura. Parlando di persone che ancora oggi venivano definite “gravemente handicappate”, si può trovare l’invocazione ad avere un atteggiamento amorevole e quindi a fare riferimento ad una pedagogia dell’amore, un’espressione che certamente non è utilizzata da studiosi che, con quel po’ di ragione che abbiamo riconosciuto loro, vogliono richiamarci alla buona realtà delle buone classi speciali. La pedagogia dell’amore aveva una sua collocazione per quelli che venivano anche chiamati “i più fragili”, “i più derelitti”, “i più abbandonati”, “i più bisognosi”.
Pedagogia dell’amore: vorremmo riprendere questa espressione, collegandola però ad un modo di amare che è connesso, intrecciato al conoscere: amare conoscendo e amare perché si conosce; quindi non un amore vuoto di una dinamica dei sentimenti, ma un amore investito nelle conoscenze.
Ci domandiamo se quando usiamo l’espressione “handicappato grave” stiamo indicando una stasi: conosciamo già l’altro in cui non c’è nulla da conoscere, e quindi non abbiamo bisogno d’altro, essendo una realtà già definita. Ma se l’altro fosse invece una dinamica da conoscere?
Vogliamo conoscere meglio. Abbiamo bisogno di saperne di più e meglio: vogliamo vedere che cosa succede in diverse situazioni, in diversi contesti; provochiamo la possibilità di conoscere, non ci accontentiamo di quello che già è dato e neanche ci accontentiamo di ciò che dice lo specialista, perché vorremmo confrontare la sua diagnosi con le nostre esperienze e anche di queste far tesoro assieme ai coetanei del soggetto.
Conoscere per amare (e viceversa)
Vorremmo che anche i coetanei si accostassero ad un soggetto un po’ “misterioso” per cercare di capire, per studiare a partire da un fisico disfunzionale, da una comunicazione assente, e studiare come funziona un corpo umano, come funziona la comunicazione e tante altre “cose” – parola che non dice esattamente di che conoscenza si tratta – e possono essere collegate al mistero di un compagno, di una compagna, che si presenta in maniera tale da non suscitare immediata simpatia e amore.
Dire “dobbiamo amare” è impegnativo e un po’ retorico. Dobbiamo conoscere per poter amare. Su questa conoscenza si basa anche il ragionamento che cerchiamo di fare a proposito dell’intera dinamica inclusiva: per conoscere occorre avvicinare, avere del tempo di vicinanza, bisogna interrogare altre competenze, il soggetto stesso, bisogna cambiare contesto, sperimentare nuovi mediatori; è un’indagine e una conoscenza complicata e si complica ancora di più se vogliamo che questa non rimanga una conoscenza aggiuntiva, ma sia integrata ai nostri programmi di apprendimento ovvero alle discipline, come l’educazione linguistica, la matematica. Può esserlo?
L’esperienza ci dice che non solo può esserlo, ma che conduce a una qualità degli apprendimenti e quindi, in corrispondenza degli insegnamenti, molto più alta, e che quando si realizza una didattica inclusiva di questo tipo i risultati sono elevati per tutti.
Queste sono esperienze precise, documentate e documentabili, che in qualche modo smentiscono la necessità di utilizzare una strutturazione differenziata – classi speciali – e incoraggiano a riprendere dal buono che c’è stato o c’è nelle classi speciali – se guardiamo fuori dai nostri confini – per poterlo integrare in una didattica inclusiva.
Cambia l’idea di conoscenza; è necessario che sia chiaro questo: quando noi pensiamo in termini di classi speciali, sottoscriviamo implicitamente un’idea di conoscenza che poi viene trasmessa anche a chi cresce, ed è – in maniera forse un po’ schematica – la seguente: la conoscenza è un dato o, usando un’immagine figurativa, è un territorio che ha precise definizioni e confini netti, in cui, noi adulti che ci occupiamo di educazione, di didattica, di insegnamento, di scienze dell’educazione, siamo collocati. Ne deriva per noi un compito importante, decisivo per il destino degli altri: ammettere in questo territorio/conoscenza coloro che ne sono meritevoli; e implicitamente o esplicitamente, secondo le convenienze dei tempi, lasciar fuori coloro che non ne sono meritevoli. Si tratta di un’idea di conoscenza data e chiusa una volta per tutte.
Forse anche gli studiosi che invocano le scuole speciali non sarebbero d’accordo con questa idea di conoscenza perché probabilmente aderiscono ad un’idea di conoscenza che è continuo divenire, che è un farsi e che ha bisogno di interrogare le realtà come si presentano. Immettere in questa conoscenza significa in qualche modo trasformare la conoscenza stessa e non immettere in un territorio che rimane quello che era e che sarà.
Una delle espressioni più care a Don Milani è proprio quella di una scuola che è filo, dello spessore del rasoio, di collegamento tra un passato e un futuro. Costruire una scuola che permetta di crescere dal passato al futuro significa avere un’idea della conoscenza che è attiva; è conoscere attivamente.
Quando si evoca l’educazione attiva forse non si ha una precisa immagine di una conoscenza attiva. Che è un farsi. E allora c’è da aggiungere che se questo è un modo di pensare, di concepire e di vivere la conoscenza, il soggetto che si presenta con delle differenze è investito da questa dinamica – in maniera che dobbiamo fare in modo non sia violenta – che certamente è di curiosità e, appunto, di conoscenza attiva: scopriamo come funziona, si potrebbe dire, anche se i termini potrebbero essere presi quasi come offensivi perché sembra che ci proviamo con un atteggiamento da scienziato zoologico, ma di fondo c’è un interesse che può essere e che va collegato all’amore. Dobbiamo farlo in termini tali da essere non invasivi, delicati, attenti anche al contorno familiare e quindi capaci di creare uno stile di conoscenza rispettosa.
Sappiamo che oggi è uno dei temi su cui non si trova facilmente un accordo quando si tratta ad esempio della bioetica, della riproduzione e di tante appassionanti ma delicate situazioni che non possono essere affrontate solo da alcuni, e vanno partecipate.
La conoscenza inclusiva
L’educazione inclusiva, in una scuola inclusiva, che non escluda nessuno può essere un impegno della conoscenza e quindi dell’amore. Chiudiamo un cerchio. E non per tornare al punto di partenza, ma per aprire una dinamica che non si chiude, e questa è una delle situazioni più interessanti che ci è stata data anche dal contesto storico in cui abbiamo avuto la sorte di vivere: la possibilità di scoprire che certe espressioni chiudono alla conoscenza; e altre aprono; e quando aprono appassionano, ma sono complicate, non possiamo quindi semplificarle facilmente e ridurle a poche cose. Impegnano tempo come impegna tempo la conoscenza. Impegnano una pluralità di fonti e anche questo è tipico della conoscenza. Impegnano comparazioni, tra contesto e contesto, tra mediatori e mediatori, tra tecniche e tecniche. Implicano voglia di sapere e noi abbiamo assistito – dobbiamo dirlo anche se sembra di fare dell’autobiografismo – ad una trasformazione straordinaria di soggetti in crescita che da annoiati ripetitori sono diventati appassionati nella ricerca del conoscere. E questo senza abbandonare le aree disciplinari: hanno infatti mantenuto fede anche a quelli che sono i fondamentali compiti della scuola, gli apprendimenti di base, arricchendoli e sapendo interessarsi alla biologia, alle scienze, a quelle conoscenze che oggi vengono tante volte invocate come quelle di cui la scuola italiana ha più bisogno.
I ragazzi e le ragazze, grazie ad un compagno con una situazione di disabilità complessa, hanno imparato di più, si sono appassionati al conoscere. E quel compagno, quella compagna? Si è trattato solo di un’occasione per gli altri oppure ha migliorato la propria condizione? Questo non è ancora possibile dirlo in modo definitivo; possiamo però dire che vi sono dei cambiamenti in atto che se non sono mortificati dal clima un po’ da restaurazione su certi principi, certamente vengono avanti e potrebbero riservare delle interessanti sorprese grazie al fatto che siamo in un’area geografica che può permettersi qualcosa che in altre aree geografiche è più difficile da ottenere. Questo ci può far sentire dei privilegiati, ma ci deve anche far sentire responsabili nei confronti di altre parti del mondo dove questi problemi sono vissuti con altre risorse.
Crediamo che questo sia l’interesse maggiore del nostro modo di organizzare le attività educative e didattiche e non ci mortificano le accuse. Dobbiamo viverle come una voglia di far meglio e come indicazione interessante a non appiattirsi, a far tesoro del passato, di riprendere ciò che di ben fatto vi è stato nel passato delle classi e scuole speciali. Ma di evitare assolutamente di ritenere che ciò che vi era di buono sia unicamente possibile se restauriamo strutture che sono consegnate alla nostra storia passata.
*Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. Testo già apparso in «Handicap & Scuola» n. 6/2007, e qui ripreso per gentile concessione di tale testata.
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