Una madre «bislacca», Icaro e la scuola superiore

di Rossella Monaco
Sarebbe stato certamente gradito in quella scuola superiore, a patto che mettesse da parte le sue potenzialità e le sue pretese di apprendimento e si adattasse a quello che la scuola poteva essere per lui: un buon parcheggio "affettuoso" e ben organizzato... Riceviamo e ben volentieri pubblichiamo questa preziosa testimonianza che ancora una volta purtroppo fa chiedere: esiste davvero la pretesa integrazione scolastica?

Statuetta di madre con figlioDopo la “scoperta” delle capacità di nostro figlio, disabile motorio grave, che non parla, ma scrive con la tecnica della comunicazione facilitata, e data la sua passione per lo studio e il desiderio più volte espresso di diventare un giorno giornalista e scrittore, pensavamo di fargli un regalo bellissimo, iscrivendolo alla scuola superiore: i risultati delle medie, infatti, erano stati incoraggianti.
Dopo esserci guardati un po’ intorno, abbiamo dunque seguito il consiglio della responsabile del Settore H dell’Ufficio Scolastico Provinciale di Pisa e abbiamo scelto l’Istituto Montale di Pontedera, prima liceo delle scienze sociali: il percorso curricolare sembrava fatto apposta per lui!

Siamo perciò andati a parlare con la responsabile del Gruppo H della scuola e con la preside, presentando con entusiasmo il nostro meraviglioso figlio, che chiamerò Icaro, pseudonimo che lui stesso scelse un po’ di tempo fa.
Eravamo così sicuri di lui e di noi stessi da non fare attenzione ai segnali che da subito avrebbero dovuto metterci in allarme: le pretese difficoltà di strutturare prove adatte a lui; l’invito a “pensarci su” prima di comprare i libri di testo; l’annuncio telefonico in una domenica d’estate che drammaticamente ci avvisava che «la sua classe era stata soppressa e che bisognava spostarlo»; le infinite discussioni telefoniche e per posta elettronica, perché ci eravamo impuntati a non volerlo spostare, dal momento che era stato iscritto per tempo e che aveva gli stessi diritti dei suoi compagni normodotati.
Non avevamo dunque capito, io per prima, mamma “bislacca”, ciò che era così al di fuori del mio sentire, ovvero che nostro figlio sarebbe stato certamente gradito in quella scuola, a patto che mettesse da parte le sue potenzialità e le sue “pretese” di apprendimento e si adattasse a quello che la scuola poteva essere per lui, un buon parcheggio ben organizzato (c’è perfino il bagno attrezzato a pianterreno!), con persone che “affettuosamente” avrebbero “dosato” la sua «socializzazione con i compagni normodotati», studiata e imparata da questi ultimi. A lui, invece, studiare e imparare, esprimere il proprio pensiero, non doveva interessare.

Nonostante tre insegnanti di sostegno (per via delle tre aree didattiche) per 15 ore alla settimana e un’assistente all’autonomia per 12, per un totale di 27 ore – un lusso negato a molti, è vero – apprendere e poter dimostrare quanto appreso non doveva essere concesso a Icaro: lui, come ai tempi della materna, sarebbe andato a scuola per socializzare… Era il famigerato “percorso differenziato” che consente sì la frequenza della scuola, ma “in un altro modo” e soprattutto, quasi esclusivamente, socializzante. Ma che spreco di risorse, quattro persone con relative specializzazioni, quasi esclusivamente per socializzare!

E tuttavia, come ho già detto, sono una mamma “bislacca”, siamo due genitori e un figlio pieni di pretese: e così ci siamo ribellati.
Nostro figlio vuole studiare e imparare e noi vogliamo che possa farlo e che sia messo nelle condizioni di poter esprimere quello che ha ricavato dallo studio e dall’apprendimento, utilizzando le sue modalità di comunicazione. Che però le insegnanti di sostegno non desiderano, o non sono motivate, o non ritengono che  sia il caso di apprendere. O non hanno tempo di apprendere.
Ragazzo con disabilità a scuolaSiamo ormai ad aprile avanzato e quel poco che si è ottenuto è stato grazie alla caparbietà di nostro figlio, convinto dei propri diritti e appassionato dello studio; alla nostra continua, estenuante battaglia contro l’ignoranza, la discriminazione e, ci pare, anche qualche dispetto; e alla prudente buona volontà dell’assistente all’autonomia che avendo anche compiti di intervento nella relazione e nella comunicazione, cautamente è riuscita ad avvicinarsi a nostro figlio e, in parte, al suo modo di comunicare.
Attenzione, però, che la scuola non sempre la utilizza per la comunicazione e la relazione, almeno con gli insegnanti; e così, a volte, l’assistente si trova a dover fare da “testimone” alle verifiche cui il giovane Icaro deve arrangiarsi a rispondere, magari senza che il docente (anche di sostegno) – oltre a non conoscere a tutt’oggi le sue modalità di comunicazione – abbia la più pallida idea di come si strutturi una prova equipollente diretta ad un ragazzo con la sua patologia.

In sostanza, se nostro figlio ha un modo speciale di comunicare, affar suo: pare che nessuno sia obbligato ad impararlo, tanto meno le insegnanti di sostegno. È lui che deve adattarsi alle modalità di comunicazione delle insegnanti, e non viceversa. E dargli un assistente alla comunicazione a orario pieno? Mah! I competenti (!) uffici – dalla dirigente scolastica in su – non hanno ancora deciso se gli spetta. E intanto che decidono (non si sa per quale anno scolastico, ormai), Icaro deve fare lo slalom tra le difficoltà di ogni genere che gli vengono messe davanti.
Per il resto, noi genitori siamo stati praticamente accusati di tutto: compreso di esercitare su nostro figlio “pressioni psicologiche” tali da mandarlo a scuola stanco e provocargli (noi?) atteggiamenti di rifiuto (a qual fine non si sa).
In compenso, a casa ci attiviamo a turno per aiutarlo nello studio, rispiegandogli le materie scolastiche (che per fortuna riusciamo per ora ad affrontare tutte: diritto allo studio sì, ma solo con genitori istruiti!) e facendogli fare compiti ed esercitazioni, oltre ai numerosi esercizi riabilitativi per aiutarlo a migliorare ancora la qualità della vita.

C’è una Circolare Ministeriale del lontano 1988 [la n. 262 del 22 settembre 1988, N.d.R.] la quale recita che «l’integrazione scolastica degli alunni con handicap […] non può […] limitarsi alla semplice socializzazione in presenza, ma deve garantire, di regola, apprendimenti globalmente rapportabili all’insegnamento impartito a tutti gli alunni di quel determinato indirizzo di studi».
Significativo, a tal proposito, quanto messo invece per iscritto dalla preside della scuola frequentata da Icaro, vent’anni dopo: «Accanto al diritto di *** di veder riconosciuti quegli aspetti relativi all’accoglienza, al rispetto, all’attenzione, alla partecipazione che devono essere adeguati alle singole situazioni personali, la scuola, quale titolare del processo di insegnamento apprendimento, deve difendere anche la salvaguardia del diritto ad apprendere degli altri 25 ragazzi della prima e delle rispettive loro individualità».

Insomma, gli altri venticinque ragazzi hanno diritto ad apprendere, ad essere seguiti individualmente, mentre Icaro ha diritto a tante cose – giustissime per carità – ma ad apprendere non sembra. Anzi, a leggere bene, sembra che la sua presenza, certamente a causa dei suoi “bislacchi e invadenti genitori” e alla loro passione per le battaglie contro i mulini a vento, sia piuttosto un ostacolo al diritto allo studio degli altri.
Ma allora, esiste davvero, nelle scuole superiori, la pretesa “integrazione scolastica del disabile”?
E mi viene anche da pensare che i limiti per nostro figlio non siano tanto dovuti al suo handicap, quanto alla “dura realtà” della scuola che evidentemente intende prepararlo alla “dura realtà” sociale, in cui i diritti saranno uguali per tutti: l’importante, però, è che non ci si infilino dentro anche i “diversi”…

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